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La resilienza. Vita e passione di uno sportivo Slovacco

Vincere non è sorpassare gli altri, è superare se stessi. Se lo dice Stefan Bendula, 61 anni, 12 interventi, un'anca di titanio e una vita trascorsa tra hockey, Iron Man e maratone, c'è da credergli
Stefan cover

La mia è una storia di resilienza e inizia nella vecchia Cecoslovacchia, un bel paese socialista (all’epoca) dove tutti i bambini giocavano sempre fuori, e cosi anche io. Si faceva tantissimo sport e devo dire che anche a scuola l’educazione fisica era di ottimo livello e lo Stato ci teneva molto. Io mi buttavo su tutti gli sport che esistevano, ma poi ho scelto quello che mi piaceva e attirava più degli altri e cioè hockey sul ghiaccio, sport veloce, duro, ma bellissimo con continui cambi di situazioni e giocatori pure, molto popolare nel mio paese e praticato con risultati di livello mondiale che superavano quelli del calcio e che in inverno si giocava anche sui fiumi e laghi ghiacciati.

 

La mia prima volta

L’hockey per me è diventato una vera passione e mi ci dedicavo veramente con tutto me stesso fino a quando, a 10 anni, ho avuto un incidente in bicicletta contro una macchina e, ovviamente, vinse la macchina.

In ospedale, mentre mi mettevano i miei primi 30 punti sul viso, io chiedevo al dottore se avessi potuto ancora praticare l’hockey che avevo iniziato da poco. Non sapevo cosa fosse la resilienza, ma in qualche modo già la praticavo. Ricordo poco, ma mio padre che era con me, poi mi raccontò che il medico sorrise e mi rassicurò.

Aveva ragione perché continuai a giocare a hockey, passai in tutte le categorie giovanili con il sogno di diventare un giocatore professionista e giocare in serie A con quale, quando avevo 16 anni, ogni tanto mi allenavo anche. Allenamenti faticosi, ma non mi interessava, a volte ne facevo anche tre al giorno con la mia squadra juniores e poi spesso mi addormentavo in cucina sopra i libri di scuola e piatti di cena non finita.

L’hockey è uno sport molto fisico, facile che capiti qualche infortunio e io non feci eccezione. Tanto l’impegno, ma nonostante tutto in serie A non ci sono arrivato e dopo i due anni di servizio militare sono andato a giocare in serie B in una citta vicina.

 

A 25 anni un terribile incidente stradale ha interrotto tutto.

Circa 6 mesi in ospedale, tante ferite, fratture – tra queste quella di una costola e compressione del midollo che per alcuni giorni non mi fece sentire le gambe – strappi legamentosi, diversi interventi chirurgici, due viti di titanio (spalla e ginocchio) e tutto il corpo ingessato, mandibola rotta e conseguenti otto settimane di alimentazione solo con cibi liquidi. Una dieta forzata che mi fece dimagrire sedici chili e che mi lasciò debole e depresso, ma non al punto di non iniziare il mio recupero con i medici che mi dicevo di essere contento di essere ancora vivo.
Certo che lo ero, ma io volevo tornare a giocare a hockey e non volevo ascoltare opinioni e voci negative che mi facevano innervosire al punto che spesso non volevo nessuno intorno.

Alla fine hanno capito – loro – che bisogna essere sempre positivi e che l’unica lingua che dovevano parlare con me era quella del coraggio e della speranza per il mio ritorno alla vita e magari allo sport, il mio hockey; la lingua della resilienza.
Non che io non fossi un po’ impaurito ed insicuro, lo nascondevo, ma nello stesso tempo ero determinato a fare di tutto e di più per riuscirci.

In questo la mia famiglia fu decisiva, mi stava sempre vicina, soprattutto mia madre che mi preparava buonissimi frullati e omogeneizzati, il mio unico cibo durante le prime 8 settimane.

Leggevo molto e cercavo sui libri le storie positive,s rorie di resilienza che mi davano la mia carica verso la ripresa; è così che da allora il mio motto di vita è diventato uno e uno solo e che io mi ripetevo come un mantra: i nostri limiti li stabiliamo noi stessi…noi stessi stabiliamo i nostri limiti...               

Tantissime notti insonni, dolori, qualche lacrima, ma grinta, tenacia, determinazione e speranza non mi hanno mai lasciato e via a fare esercizi dopo esercizi.
La resilienza passa attraverso questo.

 

Morale, dopo otto mesi ero di nuovo sui pattini, mi sentivo bene e forte, ma i medici non erano d’accordo, per loro non ero idoneo per l’hockey. In qualche modo l’attitudine alla resilienza l’ho dovuta applicare anche verso il loro parere che  me non piaceva.

Impensabile per me accettare il loro verdetto e quindi mi allenavo sotto la mia responsabilità, ma durante l’ultimo allenamento dell’anno e quasi alla fine in uno scontro il mio ginocchio cedette.

Dissi una bugia io che non sono abituato a dirne, dissi che ero caduto dalle scale prima di subire un altro intervento chirurgico, ma capii. Capii che con hockey era finita.

Mi illusi di rimanere vicino alla mia passione facendo il massaggiatore; andò avanti un anno, poi dovetti lasciare perché mi faceva molto male solo guardare e non poter giocare.

 

Iron Man

Durante la mia ripresa per il potenziamento muscolare praticavo tanto nuoto, bicicletta e corsa e così ho cercato la mia nuova realizzazione sportiva negli sport dove non c’era contatto fisico, troppo rischioso per il mio fisico diciamo un po’ rifatto.
Nella mia citta natale Košice si corre la più vecchia maratona d’Europa e io decisi di provarci.

La scoperta della mia altra vera passione iniziò così.

A due anni dall’incidente correvo la maratona sotto le 3 ore, con il best personale 2 ore 50.

In Cecoslovacchia, tra i primi in Europa, si organizzavano le gare dell’Iron Man, competizione che a veder bene è veramente un monumento alla resilienza e alla volontà di andare avanti, con i suoi c 3,8 km di nuoto, 180 km in bici e  42 km di corsa, tutto nell’arco di 24 ore.

Ovviamente questa grande sfida fisica e mentale mi attraeva e non la feci una volta per provare; l’ho fatta dodici volte vincendone anche qualcuna.

La sfida più dura era la gara Super Iron Man che prevedeva 5 km a nuoto, 250 km di bici e 50 km di corsa, feci anche quella e poi altre gare ancora anche se spesso non potevo allenarmi per i problemi al ginocchio destro, tre volte operato e che ogni tanto si bloccava o infiammava. Allora, quando non potevo correre, andavo in bici oppure nuotavo e gonfiavo un cuscino di gomma per sviluppare capacita polmonare.

Nel 1989 addirittura ho partecipato al primo Mondiale di Triathlon Olimpico ad Avignone in Francia ed essere tra i migliori atleti di tutto il mondo fu una grandissima gioia e soddisfazione.

 

La mia Italia

A novembre 1989, caduto il comunismo si sono aperte le frontiere e anche io passai i confini del Paese, volevo andare al mare e ho scelto l’Italia che mi attirava per la sua storia, la bellezza e anche per il mangiare con pizza, pasta e gelato e gelato in cima ai miei gusti e poi la gente, tutti cordiali.

Ovviamente il viaggio fu in qualche modo una declinazione di resilienza; zaino, sacco a pelo e autostop fino a Roma per un mese di vacanza in cui ho visto tanto, mi sono innamorato di tutto e ho conosciuto tante persone.

Tra queste qualcuno mi propose di rimanere, mi avrebbero trovato un lavoro e anche una sistemazione per abitare; non me lo feci dire due volte, accettai con la prospettiva di guadagnare e aiutare la mia famiglia.

La mia sistemazione fu Civitavecchia; ci rimasi non un mese o un anno, ma venti anni ed è così che l’Italia é diventata la mia seconda casa.

Di lavori ne ho fatti tanti, tornavo a casa per Natale e qualche giorno in estate, resilienza anche questa perché comunque vivere lontano dalla tua terra non è mai facile.  Quando già da diverso tempo vivevo a Civitavecchia e avevo 41 anni, ho incontrato un gruppetto di ragazzi che iniziavano a giocare hockey sui pattini in linea.

Si allenavano in un campo di cemento dell’oratorio, un po’ nascosto, per questo non sapevo nulla di loro e quando gli ho raccontato che da giovane giocavo hockey su ghiaccio in Cecoslovacchia per loro fu una grande sorpresa.

Mi invitarono a provare e, certo, era un hockey diverso dal mio, ma nonostante tanti anni passati da quando avevo smesso di giocare, mi sentii subito a mio agio; l ginocchio reagiva bene e visto che il contatto corpo a corpo non era permesso mi lasciai convincere, molto facilmente devo dire, ad allenarmi con loro e di aiutarli a crescere.

Per me fu una rinascita, perché la resilienza mi aveva portato a fare tante cose, ma anche a non dimenticare le mie passioni.

Portavo sempre una bandana da pirata sotto il casco e cosi mi iniziarono a chiamare il pirata e quando ci siamo iscritti al campionato di serie B e dovevamo trovare un nome per la squadra hanno accettato la mia proposta.

I Pirati di Civitavecchia nascono così, gruppetto di ragazzi e qualche ragazza pure, appassionati di questo sport con parenti ed amici al seguito.

Io mi divertivo moltissimo. Come sempre giocavo con passione e cuore e mentre sul ghiaccio ero un giocatore molto difensivo, in questo caso ero difensore e attaccante, facevo il gioco, segnavo tanti goal, vincevo le partite e cercavo di aiutare il giovane allenatore con vari esercizi e sistemi del gioco.

La squadra cresceva bene, i ragazzi si impegnavano tanto e così iniziarono a arrivare anche i risultati positivi; subito il primo anno abbiamo vinto il campionato e siamo passati in serie A2 e dopo qualche anno siamo riusciti a passare in serie A1.

La partita decisiva si è giocata a San Benedetto del Tronto, difficile e indimenticabile l’abbiamo vinta per 3 – 1 con due goal mie.

Al fischio finale fui aggredito da dietro da un giocatore avversario e fu il putiferio con una rissa che coinvolse giocatori avversari e persino il pubblico con polizia e carabinieri che poi ci hanno scortato fino al casello autostradale.

 

Poi nella squadra abbiamo fatto venire altri giocatori forti e giovani e per me, a 49 anni, era tempo di smettere.

Quando mi chiedevano come riuscivo a giocare a una certa eta con questa grinta e passione rispondevo semplicemente io gioco ogni partita con cuore e impegno come se fosse mia ľ ultima.

Posso dire con orgoglio di avere contribuito parecchio alla crescita di questa squadra e che abbiamo fatto conoscere questo bellissimo gioco a un pubblico che probabilmente non ne sospettava neanche l’esistenza.

Due anni dopo, come allenatore, con la squadra dei Pirati abbiamo vinto la Coppa Italia e siamo arrivati quarti alla Champions League in Francia, risultati mai raggiunti prima che mi faranno ricordare il nostro non facile ma bellissimo percorso, le tante soddisfazioni e i momenti indimenticabili.

Poi, come capita spesso nei vari sport di squadra, dopo qualche partita persa il direttivo ha deciso di cambiare l’allenatore e così si concluse per sempre la mia doppia storia hokeystica.

 

Stefan Bendula e Federico Fedele

Lungo il Tevere

Chiuso con l’hockey sono tornato alla mia passione precedente, la corsa, che ovviamente faceva parte della mia preparazione individuale anche per l’hockey ed era un punto fermo della mia vita di resilienza, ma a quel punto decisi di dedicarci più tempo e di fare altre maratone. Bellissima quella di Roma…

Tra l’altro in quel periodo facevo l’istruttore in una palestra dove, ad ora di pranzo, veniva ad allenarsi un giovane dentista, un tale Federico che voleva essere seguito da me e con il quale nasce una bella intesa, prima professionale e poi di amicizia internazionale ma vera.

Un giorno viene Federico da me e mi dice: senti, io non ho mai fatto tanto sport nella vita, ma abito a Roma e vorrei tanto a correre la nostra maratona…credi sia fattibile per me? e mi alleneresti?

E cosa potevo mai rispondere io se non certo che sì. Così oltre al potenziamento mirato in palestra abbiamo iniziato anche a correre, tre volte a settimana con me a Civitavecchia e poi una o due volte ancora a Roma.

A Federico si sono via via aggiunti amici e parenti che di domenica correvano con lui, lungo il Tevere, e da qui tra i discorsi di politica, calcio e donne nasce l’idea di creare un gruppo sportivo ufficiale.

Promesse e parole non rimangono in aria e nasce l’ASD Lungoiltevere Roma con presidente proprio  Federico Fedele, l’anima vera di tutto e che prima di tutti aveva intuito quale formidabile strumento di sport, aggregazione e divertimento sarebbe diventata.
Dopo alcuni mesi di preparazione Federico concludeva la sua prima maratona di Roma felice e con un grandissimo sorriso e bello il passaggio al venticinquesimo km dove ci aspettavano sua  moglie e due figli  con la scritta “Vai papà, vai!!! “, l’unico doping lecito, quello del cuore e degli affetti, che ha spinto Federico in un fiato fino al trentesimo km, quando ci siamo dovuti fermare un po’ per i crampi. 
L’anno successivo ancora insieme e siamo riusciti a migliorare il tempo di quasi di 45 minuti con l’ultimo chilometro corso senza scarpe in onore di Abebe Bikila, il grande maratoneta che vinse le Olimpiadi di Roma correndo scalzo.

 

Con il tempo sono diventato er mister per tutto il gruppo Lungoiltevere che si allargava; pian piano anche gli altri ragazzi volevano allungare le distanze, prima la mezza per poi provare la maratona e oramai ce ne sono tantissimi che ne hanno corso almeno una.

 

Io per vari motivi famigliari e personali sono dovuto tornare in patria, in Slovacchia a Košice, nella mia citta natale, ma nonostante la distanza, la nostra amicizia nata di corsa e con la corsa continua, anche lei una forma di resilienza a tutto.

E proprio per questo, per onorare e rendere forte l’amicizia, ogni anno si sceglie una maratona in Europa, si fa la preparazione mirata e poi si parte, ognuno da un punto diverso per ritrovarci insieme a Roma, a Parigi, a Vienna, a Madrid, a Bratislava e chissà dove ancora.

Perché di una cosa noi siamo sicuri, correre ci piace e vogliamo continuare a farlo a lungo

Stefan Bendula, 61 anni, massaggiatore e preparatore atletico, cresciuto con l'hockey, passato dall'Iron Man e approdato alla corsa, sportivo Slovacco che non ha mollato mai nonostante tante difficoltà, infortuni, 12 interventi chirurgici e un'anca di titanio

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