Auti nostro! sembra una preghiera al Padre e invece no, non è orazione sommessa, ma grido e polvere, sudore e fantasia.
Fantasia soprattutto, perché se polvere e sudore sono una seconda pelle, è la fantasia quella che fa gridare Auti nostro!, nietzschiana affermazione di volontà che delimita lì, proprio in quel punto e non in un altro, il bordo campo immaginario.
E se il pallone lo supera quel bordo campo, allora è fuori, out, o meglio Auti nostro! non preghiera, ma rivendicazione inderogabile del prendere possesso della palla, di capovolgere la sorte e di rimetterla in campo dal fallo laterale.
La palla, e che palla, quella che ti sei portato da casa, che ti sei tenuta stretta quando ti sei appeso al tram per arrivare prima, quella che se non la riportavi a casa erano dolori perché significava consegna di rigore per almeno una settimana. Niente uscite, niente campetto e, secondo come girava, neanche TV dei ragazzi che almeno, bene che andava, potevi vedere Urrà Flipper, bello per passare un po’ di tempo, ma niente a che vedere con il campetto.
Perché il campetto era un mondo a parte
Il campetto era l’unico posto dove potevi essere e pensarti in grande quando t’incollavi la palla al piede, dribblavi, scartavi, tiravi di piattone o di punta e segnavi, qualche volta, mica sempre, ma andava bene lo stesso.
Era lì, sul campetto, che ti immaginavi avanti di qualche anno, vestito da calcio, quello vero, tutto preso ad allacciare ai piedi scarpini veri dentro a uno spogliatoio vero, mica a cambiarti sotto al cielo del Molosiglio, mica a giocare con i mocassini dalla suola di cuoio allisciato per la troppa strada mangiata.
Ti immaginavi così perché magari quel pomeriggio qualcuno ti aveva sentito gridare Auti nostro! e magari si era avvicinato a curiosare, magari ti aveva visto anche dribblare o persino segnare. Magari aveva visto di che stoffa eri. E magari quel qualcuno era uno pagato proprio per quello, per cercare i calciatori di domani, quelli che avrebbero fatto vincere lo scudetto che ormai, dopo la Coppa delle Alpi del 1966 era tempo per noi.
Ti aveva visto, ti aveva fatto fare il provino, ti aveva fatto firmare il cartellino e quello scudetto al Napoli lo avresti fatto vincere proprio tu.
Oggi lo sai che non è andata così
Nessuno ti ha visto giocare e segnare, o meglio nessuno di quelli che vanno a scovare giocatori di talento, che poi tu magari neanche troppo talento avevi.
Oggi lo sai però che giocare al campetto con le scarpe di cuoio liso, i vestiti ammucchiati e le porte immaginarie non era certo come giocare al San Paolo, ma era terribilmente bello.
E terribilmente belli erano quei pomeriggi infiniti che ti sono rimasti attaccati alla pelle, proprio come polvere e sudore, proprio come quel grido che ti è rimasto in gola e che oggi, mentre guardi in televisione le partite di un calcio che a volte fai fatica a riconoscere, gridi ancora alzando la mano.
Come se fosse ieri, come se fosse sempre.
Oggi sai anche un’altra cosa, però
Sai che mentre sudavi e gridavi e tiravi calci alla palla qualcuno ti ha visto. Non un cacciatore di talenti, ma un cacciatore di immagini e di memorie.
Mentre tu sudavi e gridavi e tiravi calci alla palla al campetto del Molosiglio, Riccardo Carbone ha fermato il tempo, ha visto l’attimo, ti ha fotografato e ti ha portato fino a noi, oggi, cinquanta e passa anni dopo.
È solo per questo che adesso lo sappiamo anche noi cosa significava giocare a calcio al campetto.
Ora però, anche se non ci siamo mai conosciuti, dai, alzati da quella poltrona, metti la palla al centro e vediamo chi vince.