La prima volta che incrociai Cecilia Frielingsdorf fu una casualità. Un amico mi aveva fissato un appuntamento negli uffici della Federazione di Atletica e lì mi fu presentata. Pensai fosse una funzionaria dell’Ente, una dipendente. Confesso che non mi feci molte domande. Di sicuro avevo conosciuto una donna di origine italiana, parlava molto bene la nostra lingua, ma al tempo stesso “non italiana”, soprattutto per via del cognome che non compresi alla prima e poi per i colori, il portamento e lo stile. Alta, bionda, direi una bellezza nordica, del nord Europa intendo.
“Cecilia, quella dal cognome impronunciabile”
Disse Carlo Calenda parlando di lei a un evento politico, un paio di anni dopo. E io che ero lì, fra migliaia di persone, capii che si trattava della stessa persona che avevo conosciuto tempo addietro. Forse è una politica mi dissi, e così sono andato a curiosare proprio su Facebook e non scopro lei in tuta, su un anello di atletica?
Ripensando al suo fisico e agli uffici dove l’avevo vista la prima volta ho avuto la certezza che Cecilia Frielingsdorf aveva praticato almeno quell’attività sportiva. E così mi sono impegnato per conoscerla e per sapere di più di lei.
Qualche tempo fa abbiamo preso un aperitivo in un bar di piazza Verbano a Roma per farmi raccontare un po’ della sua vita privata ma soprattutto della sua vita di sportiva, ricca di esperienze e di emozioni.
Tante.
Sono nata a Roma, e sono l’ultima di cinque sorelle – inizia così il suo racconto – nata nove anni dopo la quarta. Chi mi conosce da piccola mi ha riferito che ho iniziato a sgomitare molto presto; campetti di pallone e bicicletta sono state le mie prime passioni sfrenate, almeno fino a quando la mia mamma, non proprio una giovanissima mamma, ha cercato di dare anche a me quello che di sicuro non aveva fatto mancare alle altre mie sorelle. E così, ancora piccolina, sci e Campo Felice diventarono presto una nostra meta domenicale.
Le crisi di panico da competizione
Sapevo poco di lei e così le chiedo se è stata una campionessa di sci il cui nome poteva anche essermi sfuggito.
È stata Cecilia stessa a dirmi che è del ’70, facile che dopo trenta, trentacinque anni potessi aver perso qualche riferimento.
Mi riporta subito a quegli anni.
Diventai una sciatrice provetta in poco tempo, si può immaginare tuttavia che un allenatore abruzzese, per quanto bravo ed eccellente sciatore, non potesse mai forgiare una sciatrice metropolitana così da portarla sul podio più alto in una gara importante. Decisi allora di trasferirmi allo Stelvio dove cominciai a trascorrere tutti i mesi estivi. E sulle Alpi avviai la mia carriera sportiva di sciatrice, feci molte gare nazionali, di categoria ottenendo anche buoni risultati, fino a quando – purtroppo – non cominciarono a prendermi gli attacchi di panico che la notte prima di ogni gara mi assalivano con crampi a stomaco e intestino. Un brutto volo poi mi fece fiondare nella neve fresca. Di quel giorno ricordo ancora il pastore tedesco che liberò tutta la neve intorno a me. Credo avessi sedici anni o poco più e decisi che non avrei continuato con quell’attività.
Osservo gli occhi di Cecilia, da essi mi pare di veder trasparire il dispiacere, il dolore di aver abbandonato qualcosa in cui credeva, su cui aveva investito. Fortunatamente lo sci non è però l’unica disciplina sportiva e qui capisco che per lei non è importante quanto il praticare una qualsiasi attività sportiva pur di trarre tutti i valori in essa, e nello sport in generale, contenuti.
Mi si era aperto un mondo, ero giovane e piena di entusiasmo, i risultati nello sci arrivavano, eppure compresi che forse non ero tagliata per i duri sacrifici, per le rinunce, arrivai al cuore del mio problema e del mio rapporto con lo sport, un mezzo per raggiungere altro genere di valori, che non fossero necessariamente la medaglia o il podio più alto. Avevo capito due cose: che mi piacevano le lunghe distanze – la gara di sci si esaurisce in una manciata di secondi – e che di sicuro in un breve futuro mi sarei comunque dedicata allo sport più in generale. Non ero tagliata evidentemente per la battaglia o la competizione. Peraltro, la decisione di abbandonare lo sci agonistico, presa in autonomia, arrivò quasi subito dopo la perdita del mio papà. Mi sentivo sola e d’altro canto non potevo pesare su mia madre. Tornai a Roma e guardai a Caracalla e dintorni, abbastanza vicini alla mia casa, come luogo per correre e per mantenermi in allenamento. E così mi lasciai affascinare dalle lunghe distanze.
La corsa di Miguel
Ci prendiamo una pausa, sorseggiamo uno spritz, che equivale a prendere fiato, poi Cecilia mi dice che decide di fare la mamma (ha due figlie) e di volersi dedicare ad altro, senza mai perdere di vista la sua intima passione. E infatti…
Ogni anno a gennaio si tiene a Roma una corsa di dieci chilometri, La Corsa di Miguel, dedicata a un desaparecido argentino che, con le sue attività e le scelte di vita, è riuscito a mettere insieme tutti i più alti valori che lo sport dovrebbe avere la capacità di trasmettere a un popolo intero, soprattutto ai giovani.
Prima di lasciarla andare avanti, vale la pena spendere due parole sull’evento.
La corsa è dedicata a Miguel Benancio Sanchez, poeta e atleta argentino ucciso nel ’78 per via delle sue idee politiche in contrasto con la dittatura di Videla. Nel tempo ha assunto la forma di un “messaggio simbolo” di lotta contro le sopraffazioni sociali, non solo per ciò che è avvenuto in quella parte del sud America e le ha consentito di diventare in Italia uno degli eventi importanti tra i tanti riconosciuti dalla Fidal, un unicum per abbinare ad esso anche attività di carattere culturale da promuovere nelle scuole e tra i giovani in senso ampio.
A questo punto è Cecilia Frielingsdorf a riprendere la parola.
La persona che oltre vent’anni fa inventò l’evento mi riconobbe tra le migliaia di runner che partecipavano alle varie maratone, in particolare tra coloro con un passato sportivo e mi volle al suo fianco perché contribuissi allo sviluppo e alla crescita di quella competizione. Lo sport, in particolare l’atletica, è qualcosa di ancora poco praticato nel nostro Paese perché non abbiamo una cultura visionaria e perché mancano le strutture; direi che in tantissime scuole, data lo loro vetustà, mancano persino le palestre e lo spazio fisico per realizzarle. C’è peraltro da aggiungere che in molti insegnanti manca persino la voglia o lo spirito di iniziativa dal momento che, a Roma ad esempio, molte scuole sono in prossimità di parchi o aree verdi, luoghi ideali per praticare attività sportive. Intorno alla corsa di Miguel siamo riusciti nel tempo ad aggregare il consenso delle forze politiche, istituzioni centrali e regionali, e del Ministro Vincenzo Spadafora che, nel corso di un convegno dal titolo “Se la scuola si mette a correre” hanno assunto impegni anche grazie alle indicazioni da noi fornite.
Rilevante è l’iniziativa portata avanti dal gruppo operativo de la Corsa di Miguel, composta da ex atleti e giornalisti. Insieme alle numerose associazioni di promozione sportiva sono riusciti a mettere in piedi tavoli tecnici che hanno sviluppato una serie di progetti; uno di questi ha fatto sì che in Legge di Bilancio annualmente siano stanziati fondi da destinare alle scuole elementari perché nelle classi quarta e quinta vengano impiegati insegnanti specializzati in scienze motorie.
Una bella scusa per raccontare la storia
A Roma abbiamo individuato circa duecento scuole dove andiamo a raccontare storie di sport e storia. Individuiamo un tema e da qui partiamo. C’è stata la maratona a Roma? E allora da questo evento ci siamo mossi per raccontare della prima donna che ha partecipato a questa corsa estenuante e a parlare delle donne nello sport. Un altro anno siamo andati in giro a raccontare la storia di Emil Zatopek nato a Koprivnice in Cecoslovacchia, mezzofondista e maratoneta plurimedagliato, per poter raccontare anche della Primavera di Praga. Ecco, ci pare il modo migliore per tenere viva l’attenzione dei ragazzi e per raccontare la storia attraverso le imprese di atlete e atleti che hanno fatto la storia, mi scuso per il gioco di parole, nei loro rispettivi paesi. Ma non finisce qui perché i ragazzi che incontriamo nelle scuole prima sono invitati a gennaio a partecipare alla Corsa, un evento pieno di musica e colori e tanta gioia e allegria e successivamente, a marzo, li portiamo a testare le piste di atletica. In questi anni abbiamo capito, anzi ho avuto la consapevolezza che avvicinare i ragazzi a questo genere di eventi, allo sport, li aiuta ad andare oltre le sovrastrutture perché in mutande, sudati e affaticati si abbatte ogni genere di barriera e si è tutti sullo stesso piano.
Le capacità organizzative e l’impegno di Cecilia Frielingsdorf nel sociale, così come lo vede e lo vive lei, l’hanno portata ad essere tra gli organizzatori dei mondiali di atletica in Qatar e del Golden Gala a Roma.
È grazie allo sport se, proprio a Roma, in pista, sudata e in tuta non ho avuto alcun imbarazzo a stringere la mano del Presidente Mattarella ed è soprattutto grazie allo sport se da oltre dieci anni riesco a guardare ogni cosa in positivo pur convivendo con un male che non ha alcuna intenzione di abbandonarmi. Anzi, quando mi fu diagnosticata la malattia vivevo a Modena e così decisi di tornare di corsa a Roma dove unii allenamenti alle cure mediche e viceversa. Gli allenamenti e la corsa incredibilmente alleviano i dolori e quando questi aumentano so perfettamente cosa devo fare o non fare.
Cecilia, hai raccontato di tua madre, era lei che ti accompagnava sui campi di sci, ma nelle tue scelte quanto ha inciso la figura di tuo padre?
Rari momenti di intimità
Come ho detto, ero l’ultima di cinque figlie, ben diciotto anni più piccola della prima. Mio padre era una persona integra, severa e austera, nonostante ciò, vuoi perché era molto grande quando nacqui io, vuoi forse perché avrebbe desiderato un figlio maschio, con me fece tutto quello che non aveva fatto con le mie sorelle. Mi portava allo stadio la domenica a vedere la Roma, ricordo che mi svegliò di notte perché vedessimo insieme la finale della Davis in Cile, e così pure ci mettevamo davanti alla Tv per assistere alle gare di Formula 1. È sicuramente grazie a lui se ho amato lo sport, io l’ho praticato, lui lo ha vissuto da spettatore. Ma va bene così, lui è sempre con me, e lo ringrazio per esserci ed esserci stato.
Cecilia Frielingsdorf non ci ha trasferito solo l’immagine di una donna forte, energica, che va ben oltre tutti gli stereotipi, troppi purtroppo, ai quali le cronache e le mode ci hanno ormai abituato.
Cecilia ha semplicemente fatta sua la citazione attribuita forse erroneamente al barone Pierre de Coubertin evidenziando i reali valori dello sport, qualora ve ne fosse mai bisogno.
Mi piacerebbe che questa chiacchierata con lei venisse letta da tutti, giovani, donne e uomini, per il contenuto delle cose da lei raccontate e, soprattutto, venisse approfondita da coloro che pensano ancora oggi, pochi o tanti che siano, che talune discipline debbano essere ancora oggi un’esclusiva del maschio. Basti pensare che la boxe femminile, pur praticata sin dalla fine del XVIII secolo, apparve nelle Olimpiadi del 1904 come sport dimostrativo, eppure la Federazione britannica solo nel 1997 ha autorizzato la prima competizione, a seguire si è avuta la prima competizione europea nel 1999 e nel 2001, cioè ieri, abbiamo assistito al primo campionato mondiale.
Grazie Cecilia Frielingsdorf per le cose belle che ci hai raccontato.