Ci ripenso spesso.
Il pentathlon era ancora lontano e io mi rivedo bambino di pochi anni, sei o sette, giocare in strada, a Roma, nei dintorni di casa a piazza Bologna.
Ero il più piccolo di quella banda di adolescenti affamati di vita e come sempre il più piccolo deve faticare più degli altri per essere visto, ascoltato, considerato o anche solo per seguire i più grandi senza rimanere indietro, quelli di dieci, dodici anni, più forti, più veloci, più smaliziati.
Ci ripenso spesso e sono sempre più convinto che il mio talento dell’agonismo sia stato messo alla prova per la prima volta in quelle competizioni informali, gare di vita senza regole, essenziali, basiche, che avevano il fascino della scoperta e che ti promettevano tutto, soprattutto l’impossibile.
Il valore delle regole, però, lo avrei capito presto.
Il nuoto. La mia prima vita
Mio padre aveva visto lungo e se io il talento dell’agonismo me lo sono ritrovato per dote naturale, quindi senza merito, lui fu invece il primo a capire che quel quid che vedeva in me doveva diventare qualcosa di più importante.
Probabilmente anche di più sicuro rispetto al farmi crescere per strada con ragazzini tanto più grandi di me.
Aveva capito mio padre, non fece finta di niente e fu così che mi ritrovai iscritto a un corso di nuoto.
La cosa straordinaria è che a me, ragazzino ipercinetico, la cosa piacque tantissimo.
Dal giocare interi pomeriggi per strada passai a nuotare per interi pomeriggi, dal non avere alcuna regola se non quella del rientro serale, spesso neanche puntuale, passai alla disciplina dell’allenamento e imparai il valore delle regole su sé stessi, sul proprio corpo e sui propri tempi.
In piscina trovai una mia dimensione ideale ed arrivai presto ad avere risultati importanti; gareggiare mi entusiasmava e, particolare non trascurabile, vincevo.
Una gara per tutte
Le soddisfazioni non tardarono ad arrivare. Di quel periodo la gara che ricordo con maggiore piacere è una 1.500 in categoria esordienti.
Eravamo tutti bambini tra gli 11 e i 13 anni; vinsi io e non fu banale perché a quell’età la differenza di due anni è enorme sotto tutti i punti di vista, fisico, psicologico ed emozionale.
Quella gara mi fece crescere, mi diede consapevolezza e segnò l’inizio di una vita agonistica lunga 25 anni, dal 1964 al 1988, che mi ha visto passare dal nuoto al pentathlon moderno, facendo una tappa propedeutica sul triathlon.
25 anni in cui ho rappresentato l’Italia indossando più di cento volte la maglia azzurra.
Tra il 1968 e il 1972 arrivai sempre a medaglia ai Campionati Italiani di Categoria; nel 1969 fui Vice Campione Italiano nei 400 misti agli Assoluti di Nuoto di Napoli e fui anche convocato in nazionale juniores.
Nuotavo tra i 15 e i 20 chilometri al giorno e tutto lasciava pensare a una mia qualificazione alle Olimpiadi di Monaco del ’72 che invece non arrivò.
I miei tempi ad un certo punto si fermarono, non superai i trials e ci rimasi malissimo.
Ma le cose seguono spesso percorsi misteriosi, a volte li comprendiamo dopo anni, a volte mai.
Il consiglio di mio padre
Dalla delusione olimpica nasce in me la voglia di cambiare; inizialmente solo società, ma per un problema di cartellino questo avrebbe significato non allenarmi per qualche mese e, dal punto di vista agonistico, perdere l’anno sportivo.
Ancora una volta fu mio padre a fare la differenza.
Mi suggerì di iscrivermi a triathlon; avrei potuto continuare ad allenarmi a nuoto e, come corollario, cimentarmi nel fondo e nel tiro con la pistola, ancora non sostituita dalla bicicletta.
Ebbe ragione, ma al tempo non poteva immaginare quanto.
La sorpresa di un nuovo inizio
Inizio subito con le Fiamme Oro, il gruppo sportivo della Polizia, e accade l’imponderabile.
A nuoto ero bravo, ma questo ci poteva stare e il grande allenamento del nuoto, pur non avendo tecnicamente un fisico da fondista, mi faceva andare forte anche con la corsa.
La sorpresa fu la pistola; mai presa in mano prima, inizio a collezionare centri su centri.
Il mio talento per l’agonismo fa il resto; vinco le prime gare di triathlon, allora propedeutico al pentathlon e con una diversa configurazione di discipline rispetto a quello attuale, i tecnici nazionali del pentathlon mi notano, mi corteggiano e mi convincono a cambiare ancora una volta.
Il destino si chiama pentathlon
Il 10 ottobre del 1972 il pentathlon moderno diventa la mia seconda pelle, ma soprattutto il mio abito mentale, e segna definitivamente la mia vita.
Io ci credo fortemente al punto di dire a mio padre che avrei smesso di studiare per un anno perché volevo spingere sullo sport e che l’anno seguente lo avrei recuperato.
Penso di aver capito solo quando sono diventato padre a mia volta che scossone devo avergli dato in quel momento, ma lui si fidò e mi fece fare.
Ancora una volta ebbe ragione.
O forse, visti i risultati, avemmo ragione tutti e due.
Le tappe olimpiche
Montreal 1976, la prima olimpiade, in ritardo di quattro anni rispetto al sogno mancato di Monaco, è un’emozione fortissima.
L’anno precedente avevo saltato i Mondiali a causa di una brutta caduta da cavallo che mi aveva tenuto fermo, ma a Montreal sono la sorpresa della disciplina, sfioro il podio e mi piazzo quarto.
Mosca 1980 fu un’altra delusione, ma non per mia colpa; il boicottaggio dovuto all’invasione sovietica dell’Afghanistan non consente la partecipazione di atleti con le stellette e io rimango a casa.
Nel frattempo devo decidere cosa fare da grande; sulla spinta della delusione, lascio il pentathlon, smetto di allenarmi.
L’ho detto prima però, il pentathlon era la mia seconda pelle; lo stop dura solo qualche mese e a gennaio del 1981 riprendo in mano la mia vita.
L’argento individuale ai Mondiali 1981, l’oro individuale e il bronzo a squadre ai Mondiali 1982, mi fanno arrivare a Los Angeles 1984 come l’uomo da battere.
O comunque sono l’uomo da cui tutti in Italia si aspettano una medaglia.
È una grande responsabilità, una fortissima pressione psicologica, ma tutto va come deve andare e le due medaglie d’oro, individuale e a squadre, sono una gioia è immensa.
Ma non finisce lì.
Ai Mondiali di Melbourne nel 1985 sono bronzo a squadre, a quelli di Montecatini nel 1986 oro a squadre e argento individuale, alle Olimpiadi di Seul 1988 argento a squadre.
Seul. Una storia a parte
Seul è stata l’ultima gara.
Lo sapevo io, lo sapevano tutti. Ho passato una vita ad allenarmi, tanto, tantissimo, e se lo spirito agonistico lo considero un mio talento, quindi una fortuna, il resto l’ho fatto con una volontà fortissima che mi faceva allenare sempre più degli altri, che mi impediva di adagiarmi sui risultati ma che, dopo 25 anni, ha presentato il conto.
Era tempo di smettere.
A Seul si chiude comunque in bellezza, con un argento a squadre che ci fa essere sempre tra i primi al mondo della disciplina.
Non solo, però.
Medaglia e colbacco
Di Seul ricordo un episodio che mi fa ancora venire la pelle d’oca.
I russi sono sempre stati avversari temibili nella disciplina, a Seul vincono il bronzo individuale e anche nella competizione a squadre ce la mettono tutta.
Sulla pedana di spada mi batto contro uno di loro, non ne ricordo il nome, ma era un gigante, forte, mancino e una mano incredibile.
Vinco io, ma a fine partita, tolte le maschere, ognuno dalla propria parte, viene verso di me con un sorriso aperto, mi tende la mano e la mia sparisce nella sua, mi dice qualcosa, non saprò mai cosa perché parlava solo russo.
È in quel momento però che con la mano tenuta sino ad allora dietro la schiena mi porge un colbacco dell’Armata Rossa. È il suo, me lo regala, continua a dire cose incomprensibili, ma a volte le parole non servono.
Continua a sorridere mentre si gira e se ne va.
Non l’ho più visto, ma il suo colbacco lo conservo ancora e forse non vale una medaglia, ma è tanta cosa anche lui.
Inventare il futuro
Ovviamente l’uscita dalla dimensione agonistica personale non mi ha tolto il senso della sfida e la volontà agonistica ha semplicemente trovato altre strade, prima tra tutte quella dell’insegnamento.
Eppure, anche se oggi il mio rapporto con lo sport è solo divertimento, quando mi capita di gareggiare, anche tra amici, la competizione esce sempre fuori.
E oggi più che mai sono convinto che sia proprio lo spirito di una sana competizione con sé stessi l’unica strada possibile per raggiungere i propri obbiettivi, anche se io preferisco chiamarli sogni.
Vivere e praticare lo sport è un valore sociale perché, al di là del gesto atletico che a volte può essere straordinario, lo sport educa al sacrificio, alla partecipazione, al rispetto delle regole viste come bene comune e non come limite alla libertà.
Se dovessi immaginare una società ideale, sana e giusta, non saprei immaginarla diversamente.
La storia di una vita
Nei cinque nomi che nel 2018 la Federazione Internazionale del Pentathlon Moderno ha inserito nella sua Hall of Fame ci sono anche io e se è vero che l’atleta Masala ha dedicato a questo la sua vita, non posso non pensare che prima di lui c’era il bambino Masala, quello che il padre un giorno portò in piscina per farlo crescere bene e che per lungo tempo lui ha continuato ad accompagnare ogni giorno.
È per questo che oggi, ogni volta che guardo quella foto, in trasparenza, vedo anche lui.