La vita può cambiare per curiosità?
Io ho ventotto anni, la mia vita è già cambiata due volte e la più importante, la seconda, è cambiata per curiosità.
La mia prima volta
La prima volta la mia vita è cambiata nel 2013 e non per mia scelta; una malattia rara diagnostica in ritardo mi ha fatto perdere la gamba destra. Avevo venti anni ed ero un ragazzo cresciuto come tanti; la scuola, gli amici, il nuoto iniziato da piccolo, il calcio e, complice il lavoro di mio padre all’Aeroporto di Fiumicino, il sogno di fare il pilota di aerei, arenatosi però presto perché lo studio non era il mio forte, e poi i primi lavori, “spiaggino” in estate e cameriere in inverno.
Poi accade che un certo giorno inizio ad avere un dolore al piede.
Tempo tre mesi mi viene amputata la gamba destra e mi ritrovo a dover cambiare la mia immagine, non quella vista dagli altri, ma quella che ognuno di noi si vede dentro, quella con cui ci relazioniamo con il mondo e che ci fa costruire muri o gettare ponti.
Io, in quel momento della mia vita, di muri ne avevo alzati molti.
Ma il caso o chi per lui lavora per noi e, a volte, saper cogliere le coincidenze può fare la differenza.
La mia seconda volta
La seconda volta la mia vita è cambiata per curiosità e se può sembrare un paradosso, vi assicuro che non lo è affatto.
Ero alla Fondazione Santa Lucia, era uno di quei giorni infiniti della mia riabilitazione, uno di quei giorni che sembrano tutti uguali e che tu passi a cercare di scorgere un miglioramento, piccolo anche, ma che dia senso, o meglio nuovo senso alla vita che stai provando a ridisegnare.
Accade così che in una pausa del mio lavoro sento arrivare dal cortile un rumore di pallone e quasi non ci credo anche perché, mi dico, chi vuoi mai che qui dentro giochi a pallone. Faccio finta di niente, ma il rumore insiste ed è proprio una palla con delle voci che la inseguono.
Sono curioso, voglio proprio vedere chi sta giocando.
Arrivo in cortile e vedo quello che mi cambia la vita: ragazzi in carrozzina corrono dietro a una palla da pallacanestro e cercano di mandarla a canestro. Giocano!
Rimango lì a guardare e invece di rincorrere la palla, rincorro i miei pensieri.
Poi uno di loro si ferma, mi viene vicino e mi dice “ma tu che fai lì? Pensi di poter passare una vita a piangerti addosso? Vieni con me!”.
Era Andrea Pellegrini e a lui e a quella domanda devo più di quanto possa esprimere.
Andrea è un campione paralimpico di scherma e di basket, ma soprattutto è un campione di vita, portatore sano di vitalità ed entusiasmo e se ho abbattuto i muri che mi ero alzato intorno lo devo a lui.
Lezione in spiaggia
Per dirne una, Andrea frequenta lo stesso mio mare, a Ladispoli, vicino Roma. Un giorno c’incontriamo in spiaggia e, come al solito, io ero con i pantaloni lunghi perché non volevo mostrare la mia protesi, mentre lui era in costume. Mi chiede perché e gli dico quello che già sapeva. Guarda come si fa, mi dice: si toglie la protesi e inizia a giocarci, a lanciarla in aria come se fosse un giocoliere, e a girarla e rigirarla come se fosse un Colt, la spiaggia un deserto messicano e lui dentro un western di Sergio Leone.
Così si fa, aveva ragione, io capii la lezione e adesso non vedo l’ora che arrivi l’estate.
Il tempo della scherma
Andrea mi fa conoscere la scherma e la scherma mi fa vedere un mondo nuovo o, forse, mi fa vedere il mondo che avevo lì, a portata di mano, ma dove i muri che avevo alzato non mi lasciavano andare.
Inizio la scherma così, quasi per gioco, ma presto mi accorgo che quando indosso la maschera, lì dietro c’ero proprio io e fuori c’era il mondo e ogni volta che portavo un assalto ne riconquistavo un pezzettino che altrimenti mi sarebbe sfuggito.
Mi sono allenato e ho imparato a portare e parare stoccate, ma anche a governare le mie emozioni e la mia rabbia.
È così che sono rinato.
È così che la scherma è diventata la mia vita e se è vero che prima avevo il sogno di tutti, diventare un calciatore, adesso ho un sogno tutto mio che vivo ogni giorno: tirare di scherma, migliorarmi, andare a medaglia, rappresentare l’Italia e, un giorno, insegnare ad altri quello che sto imparando, che non è solo la disciplina, ma tanto altro.
La competizione come vita
Andare a medaglia è l’obiettivo di ogni sportivo e io di soddisfazioni in questo senso ne ho avute tantissime, sia in competizioni nazionali che internazionali.
Non scorderò mai la mia prima medaglia ai Campionati del Mondo di Eger, in Ungheria, nel 2015, dove con Andrea Pellegrini abbiamo conquistato l’argento nella sciabola a squadre, un’emozione fortissima per me che dovevo ancora dimostrare tutto.
Così come un’emozione fortissima fu vincere l’oro sempre nella sciabola a squadre nel 2017 ai Campionati Mondiali di Roma; per una squadra di quattro romani e romanisti, impagabile vincere una medaglia con raffigurato il Colosseo.
Tokyo2020 invece è stata una delusione che ancora mi brucia, dove qualche coincidenza sfortunata di troppo mi ha fermato troppo presto, ma il non essere arrivato al podio olimpico lo considero solo uno stimolo in più per puntare a Parigi 2024.
L’obiettivo medaglia è quindi essenziale, vitale nel suo darti la carica farti passare sopra a rinunce e sacrifici, ma c’è un altro grande aspetto che fa la differenza: il percorso.
Lo sport per l’inclusione
Io ho iniziato a fare scherma all’Accademia Romana Scherma e poi sono arrivato all’Accademia d’Armi Musumeci Greco, dove mi alleno proprio con l’obiettivo di Parigi, ma dove soprattutto ho trovato l’ambiente ideale per imparare, migliorare e coltivare una visione del futuro.
L’Accademia Musumeci Greco, infatti, in un percorso avviato da tempo insieme alla Fondazione Internazionale Terzo Pilastro, adotta una dinamica di allenamento inclusivo dove atleti normodotati e paralimpici si allenano nello stesso ambiente, si guardano a vicenda, imparano a vicenda, respirano lo stesso sudore, sono felici della stessa gioia per le vittorie e vivono le stesse delusioni per le sconfitte.
E uno dei momenti più belli di questo percorso è quando io e gli altri atleti paralimpici dell’Accademia Musumeci Greco diventiamo gli uomini da battere, con gli atleti normodotati che ci chiedono in prestito la carrozzina per provare a tirare contro di noi.
È il senso più vero dello sport, che è disciplina ma anche gioco, un gioco che si chiama vita.
Ecco, se non avete idea di cosa sia l’inclusione sociale, questo è un esempio che potete toccare con mano.
Chiaramente un obiettivo atletico si raggiunge solo se proietti tutto te stesso verso quella direzione, corpo e mente devono dialogare, capirsi, conoscersi e nulla può essere lasciato all’improvvisazione. Orari, tempi di recupero e alimentazione diventano una piccola orchestra che deve mettere a punto il ritmo giusto per suonare al meglio la sinfonia assegnata. Questo, ad esempio, mi ha portato ad avere un piano nutrizionale capace di supportarmi nelle diverse fasi di allenamento e di gara, con proteine e carboidrati che diventano elementi di una strategia comune condivisa tra atleta, allenatore e nutrizionista.
Sono un ragazzo fortunato
Dopo l’amputazione la mia vita poteva andare in tante direzioni.
Se quella mattina al Santa Lucia non mi fossi lasciato incuriosire da un rumore di pallone che rimbalzava dove non avrei mai pensato che potesse essere, non ho idea di quale strada avrei preso.
Oggi, grazie a quella curiosità che mi ha spinto a guardare un po’ più in là e mi ha fatto incontrare persone straordinarie, posso dire che l’amputazione è stata una fortuna e la mia vita ha preso la strada che mi portavo dentro e che, in altre condizioni, forse non avrei riconosciuto.
Mi considero un ragazzo fortunato, penso che moltissimo sia stato fatto e che moltissimo si possa fare per far crescere ancora il movimento paralimpico, facendo diventare lo sport un vero e fortissimo linguaggio dell’inclusione.
Per farlo è necessaria una sensibilità corale e una fattiva attenzione delle Istituzioni volta a garantire a tutti dispositivi medici innovativi e abilitanti, a supportare la ricerca scientifica, a incentivare meccanismi premianti riservati alle strutture sportive che scelgono la via dell’inclusione per modellare l’attività sportiva di base, prima vera lente d’ingrandimento per scoprire e far emergere talenti, ma anche linguaggio di vita comune tra atleti normodotati e atleti paralimpici.
Soprattutto linguaggio di vita comune tra persone consapevoli che nessuno di noi è un mondo a parte, ma siamo tutti una parte di mondo.