Carnicero. Doble ancho e, da noi, mediano che cammina.
Luis Monti è il più forte centromediano della prima metà del secolo scorso. Difende duro, fa ripartire il gioco, nel repertorio bravo sia smistare palla che a lanciare lungo. Clava e fioretto, francobolla e disegna. Non è mostro di dinamismo, ma è il metodista dei sogni, forte di testa, impossibile da superare e mai da deridere. Chiedere, su quest’ultimo punto, a Schiavio e Sindelar per maggiori dettagli.
Nessuno come lui
Nessuno gioca due finali mondiali di fila al servizio di due nazioni diverse. Unico tra migliaia e migliaia di Tanos che crescono tra le vie di Buenos Aires calciando la palla verso il domani. A casa si parla romagnolo, il pallone tiene tutti uniti. Il fratello Enrique, lo zio Juan, quattro cugini tutti calciatori e di buon livello. Nasce nel 1901, l’anno della prima partita ufficiale della nazionale argentina, la prima vittoria, 3-2 a Montevideo.
A nord dell’area metropolitana c’è la popolosa cittadina di Tigre, Luis trova prima impiego da pastaio e poi subito dopo, la squadra locale dove le macchie di pomodoro sono medaglie. Il ragazzo non si stanca mai, è un trattore, sinceramente dispiaciuto quando l’allenamento finisce.
Zio Juan non fatica a convincere i dirigenti dell’Huracan a tesserare il ventenne Luis, poi il passaggio al CA Palermo ed al San Lorenzo per i quattro anni più felici nella prima divisione argentina, 202 partite e 40 reti.
Amsterdam 1928
La consacrazione fuori dai confini arriva con le Olimpiadi olandesi del 1928. Luis Monti trascina l’Albiceleste in una marcia trionfale fino alla finale con l’Uruguay. Lui la diga che pensa, Tarasconi (11 reti), Ferreira (6), Cherro (4) e Mumo Orsi (3) spietati esecutori. L’ultimo atto è una battaglia tra avversari di pari spessore, 1-1 ed appuntamento tre giorni dopo per la ripetizione. Fantasia e tecnica individuale argentina contro disposizione tattica e filosofia dell’utile per gli uruguagi. Per Luis è gioco facile leggere l’avversario che più gli somiglia, è il migliore dei suoi nella prima partita che si trascina fino ai supplementari, segna il goal del momentaneo 1-1 – con una botta da fuori – nel replay deciso da El Mago Hector Scarone, sangue e freddezza tutta ligure sotto porta. L’Uruguay è campione olimpico.
Montevideo 1930
La rivincita non si fa attendere. Il classico del Rio della Plata è anche la finale del primo mondiale della storia, due anni dopo, tredici squadre, Montevideo capitale. Luis Monti porta i suoi in finale, è sua la prima rete argentina con la prima rete su calcio piazzato della Rimet (81′, 1-0 vs Francia). È l’uomo dei record, El filtrador Guillermo Stabile ruba la scena con otto reti in cinque partite, ma il pubblico ed i giornali concordano “in mezzo al campo, nessuno come lui“. Racconta Vittorio Pozzo: “…la qualità dei suoi lunghi, bassi od a mezz’altezza, ti riempie gli occhi“.
La finale è un film già visto. Argentina avanti, Uruguay a speculare. Argentina 2-1 all’intervallo e Celeste che non si scompone mai. È proprio Luis ad avere la palla per il doppio vantaggio, ma ciabatta alto, malamente. L’Uruguay la ribalta quando le gambe vanno di più ed il Centenario fa il resto. Finisce 4-2, festa nazionale proclamata per il giorno dopo, una nazione per le strade, mentre a Buenos Aires l’ambasciata rivale viene presa a sassate. Nei giorni che seguono, cresce il rumore di minacce mafiose prepartita agli argentini, ed a Luis Monti in particolare, al punto da mettere in dubbio la sua presenza in campo. Luis gioca e gioca bene, ma quella palla spedita al cielo resta un’ombra che andrà più via. Da Mario a El Banderin, il bar drogheria di Guardia Vieja, fino a qualche anno fa, incontravi sempre qualcuno che ci vedeva sotto qualcosa di losco, spiegando l’inspiegabile errore che costò il titolo all’Argentina.
Aria nuova, bene per tutti
L’estate dell’anno successivo Luis Monti sbarca a Genova il primo agosto e da lì in treno, stazione Torino Porta Nuova. Procuratore Rava, apripista Mumo Orsi e Cesarini. La Juventus lo segue da tempo, è un giocatore maturo di 30 anni, anzi si dice un ex giocatore, se è vero che è tornato a Tigre tra ravioli e tortellini. La sfida è quindi reciproca, la Juve è squadra vincente, ha già intrapreso con successo la politica degli oriundi, ma l’incognita c’è. Ai cronisti, ai curiosi, ai dirigenti bianconeri si presenta un omone di novanta e passa chili, evidentemente sovrappeso, a prima vista di almeno una decina di anni più di quanto riscontrabile dai documenti. Da una parte cinquemila dollari al mese ed un’abitazione centro città, dall’altra poche parole: “Mi servono poche settimane, datemi fiducia“. Dal giorno dopo, all’alba Luis è al campo di corso Marsiglia aspettando il sole d’agosto per correre ancora di più: interminabili giri di campo, scatti brevi, salti, tre maglioni uno sopra l’altro, pallone medicinale, tanta acqua e minimo di calorie. Allenamento e dieta, dieta ed allenamento. Lasciato il campo, lo trovi a Corso Stupinigi ancora a correre, c’è chi dice di averlo visto con sei maglioni. Al raduno per l’inizio della nuova stagione si presenta in buona forma e meno dodici chili. La prima amichevole è del 22 settembre, prima rete, bolide siderale imparabile da ben fuori area.
Con la Juve scrive pagine meravigliose
Non ha mai giocato in una squadra così forte, il miglior Luis Monti si vede da noi. È tra gli artefici del quinquennio d’oro. 263 presenze, 22 reti, quattro scudetti. Tra i grandi estimatori, come già accennato, il commissario tecnico Vittorio Pozzo che lega a doppio filo il suo nome alla storia del calcio italiano sin dai Giochi del 1912. Lo vuole con sé in azzurro e, con le radici di Romagna, si può fare. L’esordio, 27 novembre 1932, è con i fuochi d’artificio, 4-2 ai magiari. “Ha una facilità di calcio che gli permette di trovare le ali con dei passaggi al millimetro. È il vertice arretrato ideale del triangolo con i due interni, Meazza e Ferrara, che aiutano nella costruzione, ma provano anche a fare delle reti“.
In Nazionale
Luis Monti, cardine della Juve, diventa così insostituibile anche nella nazionale azzurra che sale sul tetto del mondo nella seconda edizione dei mondiali, Roma 1934. Come a Montevideo, lui c’è, cambia la musica [da Oid Mortales alla Marcia Reale], ma il cuore da portare in battaglia è lo stesso. Anzi, non lo dice a nessuno – non parla con gli amici, figuriamoci con i giornalisti – ma lui vuole vincere anche per i suoi fratelli argentini. E l’Italia vince. Con le reti di Schiavio ed Orsi, il lavoro dietro di Monzeglio ed in mezzo di Ferraris IV, la forza ed eleganza di Meazza e Guaita. E soprattutto la sapienza del CT che di calcio ne sa e di uomini di più. Luis le gioca tutte, non salta un minuto, Pozzo lo schiera anche nella doppia sfida nell’arco di 24 ore con gli spagnoli. Incassiamo solo tre reti, Luis trova quell’equilibrio che il calcio argentino non ha, se ne giova lui, se ne giovano i compagni. La Rimet è italiana. Luis Monti può sorridere.
Non è più il perdente di successo, non è più l’obeso. È l’unico.
Highbury!
Il 14 novembre, a meno di cinque mesi dal trionfo allo stadio del partito, l’Italia va nella tana dei maestri riluttanti a misurarsi con il resto del mondo (fuori dalla FIFA da sette anni). Non sia mai!
Inghilterra vs Italia nel tempio di Highbury con ben sette Gunners in campo. Noi con 9 su 11 della finale, Ceresoli per Combi tra i pali e Serantoni per Schiavio davanti. Nebbia e terreno pesante, attesa partenza razzo dei padroni di casa, Drake che va giù in area dopo il contatto con Ceresoli e lo svedese in giacchetta nera che si prende i primi applausi dopo appena un minuto. Rigore, ma Ceresoli in tuffo dice no. Ancora un minuto, siamo appena al secondo minuto effettivo di gioco, ancora Drake, stavolta lui durissimo sul piede di Luis Monti. La botta è tremenda, evidente il dolore ed il danno, Luis prova a rialzarsi, prova a correre, di uscire non se ne parla (n.b. non sono ammesse sostituzioni). Il CT lo sposta sulla mediana laterale, poi all’ala, ma Luis non può far nulla, fa fatica a rimanere in piedi. Rientra negli spogliatoi con la rabbia in corpo e la frattura scomposta al piede sinistro. Nel frattempo, l’Italia sbanda, e sbanda di brutto, davanti ad avversari cinici. Prendiamo tre reti in quei primi tredici minuti in cui non ci si riesce a riorganizzare. Le premesse per una sconfitta ancora più sonora ci sono tutte.
L’intervallo, sotto di tre reti e musi lunghi, serve per guardarsi negli occhi.
Capitan Ferraris IV prende la posizione in campo di Luis, prende soprattutto i suoi compagni a male parole. “…chi si estranea dalla lotta…”. Sotto una pioggia sempre più insistente, l’Italia tira fuori quello che non sa di avere, Serantoni si sacrifica in un lavoro di rientro, chiudiamo meglio e, finalmente, gli attaccanti possono dimostrare il proprio valore. Orsi imbecca Meazza al 58′, quattro minuti ancora Meazza, stavolta di testa, sulla punizione di Ferraris IV. Spinge l’Italia sul 3-2, Highbury muto, tra i pali Moss salva il risultato in più di un’occasione. Carosio conia l’espressione “i leoni di Highbury“, l’Italia inorgoglisce la nazione, la vittoriosa sconfitta resta scolpita nella nostra memoria per tornare, viva come mai, il 14 novembre di quaranta anni dopo: la notte di Wembley, di Long John, di Capello sottomisura e di tutti noi innamorati.
Il campo dopo l’ospedale
L’ospedale di Londra, dove Luis Monti riluttante si reca dopo l’intervallo, certifica la frattura ed i lunghi tempi di recupero. Ci vorrà un anno per rivederlo in campo, e non più ai massimi livelli. Pozzo si arrende per ultimo, una maglia azzurra per Luis Monti ci sarà fino al ’36. Il ritiro dal calcio che conta è della stagione 1938-’39 dopo un nuovo brutto infortunio. Inizia un girovagare tra squadre minori di mezza Europa, prima di cominciare la nuova vita da allenatore. Torna alla Juve, dove c’è il cuore e dopo una prima esperienza triestina, per vincere la Coppa Italia del ’42, 5-2 complessivo al Milano. Con il Varese una promozione in B, poi Fossanese, Atalanta e Vigevano. A bordo del piroscafo Ravello torna in Argentina nell’estate del ’47. Una breve, ultima parentesi a Pisa, prima del buen retiro definitivo nel 1950.
Omaggio azzurro, omaggio nostro
Luis Monti senza calcio non sa stare. Piano piano le luci però si smorzano, lui poi che con la stampa non ha mai legato.
Gli occhi si bagnano quando, durante il mondiale argentino, la nazionale di Bearzot gli rende visita. E lui, di nuovo bambino, accetta di buon grado l’invito al campo di allenamento.
Sarà lì al ritiro quasi ogni giorno, letteralmente rinato “…ma non sono un portafortuna. Questa è una nazionale forte. C’è tanta Juve poi, come noi nel ’34. Farete grandi cose. Lo so”.
Abbraccia Zoff, Bellugi, Scirea, il giovane Paolo Rossi.
È l’Italia che semina nel 1978 per raccogliere al Bernabeu quattro anni dopo.
Il cuore unico di Luis Monti smette di sudare il 9 settembre 1983 nella sua casa in un sobborgo di Buenos Aires.
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