Guardatela, guardatela bene la foto di copertina.
Guardatela come se foste davanti a un quadro esposto in una galleria o in un museo. Fermatevi, rubate qualche minuto alla fretta e regalatevene qualcuno per voi.
Una foto a prima vista facile, di lettura immediata, leggera nel suo racconto.
Riccardo Carbone ha fissato nel tempo una corsa, non proprio una corsa sportiva in senso stretto, ma la corsa dei camerieri, una corsa goliardica diffusa a macchia d’olio almeno sin dagli anni trenta e di cui si trovano altre testimonianze, ad esempio, a Roma così come a Treviso.
La corsa dei camerieri è evidente, ma c’è molto altro nella foto.
Prendetevi del tempo, perché noi ora proviamo a fare un salto nel tempo.
Intanto siamo ovviamente a Napoli, in quello che al tempo si chiamava Stadio della Liberazione.
E poi siamo nel 1945.
Non una città qualunque e non un anno qualunque, quindi.
Nel 1945 la guerra è finita da pochi mesi e la guerra, a Napoli, era passata davvero; lo sbarco a Salerno nel 1943, il fronte che sale, 200 bombardamenti tra il 1940 e il 1944 e circa 25.000 vittime civili rimaste sotto i palazzi sventrati.
Una Napoli che a chi non c’era l’hanno raccontata, tra gli altri, ma bene come pochi, Curzio Malaparte e Norman Lewis.
Se gli anni della guerra sono stati drammatici, quelli del primo dopoguerra non sono certo stati facili.
Bisognava rifare tutto, ricostruire tutto, rimuovere macerie di palazzi e di persone.
Nonostante questo, guardateli questi camerieri tutti presi a correre con vassoio e bottiglia come se fosse la cosa più importante della vita perché, in effetti, in quel momento quella corsa così era.
Guardate l’eleganza naturale del movimento, guardate la divisa che è un poco come a livella, annulla differenze come se non ci fosse un prima e un dopo, ferma il tempo nella dimensione del lavoro, quella che fa rinascere, sperare e vivere di nuovo.
Guardate le pettinature, perfette, simmetriche, capelli con taglio da barberia, anche quello un luogo metafisico dove il tempo si annulla e si parla di tutto, fissati con olio di makassar o da brillantina Linetti su guance rasate, prima massaggiate a mestiere e ben ammorbidite dalla crema Proraso e poi irrorate in abbondanza con dopobarba spruzzato a pompetta, il Floid o magari altri dagli incredibili colori quasi fluorescenti.
Impeccabili nel bianco e nero di gala che per loro era vestito quotidiano, abissalmente eleganti con il papillon a nastro, da comporre ogni volta che lo indossavi, mica quelli a gancetto.
Nobiltà naturale in quella corsa dei camerieri, posture da abilità consumata allenata tra una comanda e un’altra, scivolando tra un tavolino e l’altro tra sguardi immaginari e amori impossibili, tenendo a mente le facce note degli abituali così da farli sentire a casa, lì, tra quei tavoli dove si consumano riti antichi di amicizia, di combriccola, di seduzione, dove il mangiare e bere diventa rituale e dove lui, il cameriere, è officiante e maestro di cerimonia.
Ecco, nella fotografia provate a vedere tutte queste cose e anche tutte le altre che vi vengono a mente.
Provate a vivere la corsa dei camerieri fotografata da Riccardo Carbone come un’esperienza sensoriale, emotiva, profonda.
Sono sicuro che facendo così, dentro quella foto vi ritroverete anche se camerieri non siete mai stati.