Belgrado-Manchester con scalo tecnico a Monaco di Baviera. Strano a pensarlo oggi, ma l’Airspeed Ambassador, il bimotore a elica che il Manchester United aveva affittato per far rientrare a casa i ragazzi dopo la partita con la Stella Rossa, doveva fare rifornimento.
Ragazzi sì, ragazzi. I Busby babes erano ragazzi di 20, 22 anni. Una squadra, ma forse sarebbe meglio dire una banda. Chi ha avuto la fortuna di giocare per strada sa cosa significa essere una banda. Ebbene, quei ragazzi che un occhio attento aveva fatto passare dalla giovanile alla prima squadra di Matt Busby, questo erano. Affiatati, attaccati alla maglia, ai colori, alla birra e alle donne. Irregolari, una banda, appunto. Qualche anno dopo, con l’arrivo di George Best, lo sarebbero stati ancora di più.
British European Airways 609
Il fatto è che non tutti avrebbero avuto tempo per conoscerlo. Il fatto è che quel primo pomeriggio del 6 febbraio il volo BEA 609 da Monaco di Baviera non decolla. Ci prova due volte, ma non ce la fa. Ci prova una terza. Bobby Charlton dal finestrino guarda la pista di ghiaccio e neve che scorre veloce e vicina. Veloce, ma l’aereo sembra pattinare sul ghiaccio, non stacca. Veloce, non abbastanza per evitare l’inferno, ma quanto basta per andare oltre la pista, abbattere la recinzione, finire contro una casa dall’altra parte della strada, perdere l’ala e un pezzo di coda, proseguire e centrare un capanno con dentro un camion carico di penumatici. È l’inferno. Brucia tutto, bruciano ventitré dei quarantaquattro passeggeri a bordo e l’odore della carne bruciata si rapprende con quello dei copertoni. Dei ventitré, otto erano giocatori dello United. Per Bobby Charlton, otto fratelli. Il destino ha voluto che lui si salvasse dall’incidente. Il destino lo ha graziato, ma il prezzo da pagare sarà altissimo: ricordare per tutta la vita. Quasi per tutta la vita.
Poi accadrà altro, ma questo lo vedremo più avanti.
Bobby Charlton il predestinato
Ashington, cittadina del Northumberland dove Robert – per tutti Bobby – si affaccia alla vita l’11 ottobre del 1937 è poco sotto la Scozia, vicina al Vallo che Adriano volle per difendere la Britannia Roma dalle incursioni di Pitti. Cittadina di minatori, Ashington si affaccia sul Mare del Nord e non supera la trentamila anime. Bob al destino della miniera, quello del padre, sfugge. Per lui niente aria rarefatta, niente viso e mani nere, niente polmoni mangiati dal carbone. Per lui aria e campo, gambe e pallone. Gioca a scuola, si fa notare. Matt Busby spesso andava in giro nei campetti per cercare intuito e talento. È lui che se lo porta a casa e nel 1953, quando ha solo 15 anni, gli fa firmare un contratto da professionista con il Manchester United. I due non possono saperlo, ma è così che un destino si compie.
L’esordio in prima squadra è nel 1956
Quattordici partite, 10 goal, campionato vinto, Coppa dei Campioni da giocare. Quella Coppa dei Campioni che vedrà il Manchester United arrivare in semifinale. In mezzo c’è Belgrado, però. In mezzo c’è Monaco di Baviera. I Busby Babes finiscono lì.
Dopo cambia tutto, anche il loro nome. Dopo diventeranno i Red Devils.
Per Bobby Charlton ci saranno 606 maglie, 199 reti, tre campionati vinti, una coppa d’Inghilterra, una Coppa dei Campioni – ma quanto era più bello quello nome rispetto a quello di oggi – e un Pallone d’oro. E naturalmente 106 maglie della Nazionale, con la quale esordisce il 19 aprile 1958 e segnerà 49 reti vincendo una Coppa del Mondo, l’unica degli inventori del calcio, quella del 1966, a dire il vero anche un po’ discussa. Di Inghilterra- Germania e del terzo goal di Hurst ancora se ne parla.
Alf Ramsey, l’allenatore, lo aveva detto da prima dei Mondiali. “Vinceremo noi” aveva detto. Ebbe ragione, l’Inghilterra vinse la Coppa del Mondo. Nel 1966 i Beatles sono all’apice del successo e l’Inghilterra la squadra più forte del mondo, ma il mondo cambia.
I Beatles i scioglieranno nel 1970 e l’Inghilterra non vincerà mai più nulla.
Bobby
Bobby era fortissimo, bravo con tutti e due piedi, tiro potente, visione del gioco, visione del campo, elegante. Un fuoriclasse, di giocatori così ne nascono uno ogni tanto.
Con 39 anni trascorsi da calciatore prima e dirigente poi, Bobby Charlton del Manchester United è stato una bandiera, così come lo è stato dell’Inghilterra e del calcio giocato. Calciatore tra i più forti di ogni tempo, dal 1994 cavaliere di Sua Maestà, nominato dalla stessa Elisabetta II che nel 1966 a Wembley gli consegnò la Coppa, Bobby è stato un signore anche fuori dal campo. Tante le sue iniziative di beneficienza e, tra queste, l’istituzione nel 2011 della Sir Bobby Charlton Foundation che opera in favore delle vittime dei conflitti nel mondo.
Il silenzio
Ieri, 21 ottobre, dieci giorni dopo il suo ottantaseiesimo compleanno, Bobby Charlton ha ritrovato i suoi fratelli perduti, gli otto ragazzi di Monaco di Baviera e tutti i Busby Babes che prima di lui sono andati avanti. Lui, capitano di fascia e di cuore, di loro è stato l‘ultimo a lasciare il campo.
C’è qualcosa in più da dire.
Negli ultimi tre anni Bobby era chiuso in sé stesso. Demenza senile, così si dice. Implacabile, impietosa. Questa foto lo ritrae anziano, vestito di punto, elegante, un sorriso accennato e sereno.
Gli occhi, però. Guardate gli occhi. Sono occhi che sembrano smarriti e che già guardano altrove. Occhi che iniziano a vedere dove altri non vedono e a seguire pensieri che altri non pensano. Occhi che presto parleranno una lingua che altri non capiranno.
Demenza senile sì, così si dice. Chi l’ha vista da vicino, sa.
Mi piace pensare che gli ultimi tre anni della vita di Bobby Charlton siano stati pieni di gioia, una gioia impossibile da esprimere a parole, impossibile da tradurre, impossibile da dimenticare perché scritta su un’altra memoria, non quella labile che ci abbandona a suo piacere, ma quella che ci sopravvive e supera il tempo.
Buon viaggio Bobby, signore del calcio andato via in silenzio.
Buon viaggio.