Può esistere una maglietta della felicità?
Se la maglietta è autografata da Carlo Ancelotti, probabilmente sì.
Dal mio lavoro ho avute tante soddisfazioni e un privilegio, quello di entrare nella profondità della vita e di vederne da vicino sia i lati più oscuri e sia le cose più preziose. Sono entrato in Polizia nel 1978 e le mie giornate, tutte, dal primo giorno da giovane funzionario sino all’ultimo giorno da Questore, le ho passate indagando con lo stesso impegno sia sulla criminalità minuta che sui grandi casi di nera che occupavano le prime pagine dei giornali.
Sport, passione di una vita
In questa vita c’è stato però anche lo spazio per una mia grande passione, coltivata sin da ragazzo quando gareggiavo in atletica leggera correndo i 100 metri e saltando in lungo: lo sport.
Una passione che ha dato tanto al mio lavoro e che sicuramente lo ha migliorato, perché ha migliorato me e la mia disposizione a superare difficoltà e incertezze.
Una passione che mi ha portato ad essere Vicepresidente della Federazione Pugilato, responsabile del Gruppo Sportivo Fiamme Oro – che iniziai a dirigere quando diventai capo del personale della Questura di Roma – e responsabile del servizio di ordine pubblico dello Stadio Olimpico in uno dei periodi più belli del calcio cittadino, quello che ha visto i due scudetti vinti un anno dopo l’altro da Roma e Lazio.
Proprio grazie a questo incarico ho avuto modo di conoscere tanti giocatori e, tra loro, Carlo Ancelotti.
Indagine in trasferta
Ebbene questa è la storia di una maglietta, una maglietta di Carlo Ancelotti.
Una maglietta che mi riporta a un paio di operazioni che ho condotto nei primi anni ’90, quando dirigevo la sezione antirapina della Questura di Roma.
In quel momento stavamo indagando su una banda di rapinatori romani che operavano in trasferta, a Milano in particolare.
Ovviamente le indagini romane non potevano bastare e così con una squadra dei miei ci trasferiamo a Milano anche noi e iniziamo ad operare nel più classico dei modi: pedinamenti, appostamenti, fotografie. Un’indagine sul campo vuole il suo tempo e se è vero che a volte la fortuna può fare la sua parte, l’arma più importante che un investigatore ha a disposizione è la pazienza.
Rimanemmo a Milano diverso tempo, ovviamente questo includeva anche del tempo libero e io, che allora come ora avevo la passione del calcio, la domenica di Milan Roma vado a San Siro e nel post partita vado a salutare Carlo Ancelotti, allora giocatore del Milan, ma che io avevo ben conosciuto quando giocava con la Roma.
Così tra saluti e battute, Carlo mi regala la sua maglia e me la autografa.
Regalo gradito che sistemo in macchina per riportarla con me a Roma.
Il giorno dopo scatta la rete.
Avevamo ormai tutto quello che ci serviva, affondiamo il colpo, arrestiamo i rapinatori e recuperiamo armi e refurtiva varia.
Quasi in contemporanea con l’operazione, mi chiama l’allora Capo della Squadra Mobile Nicola Cavaliere. Mi vuole subito a Roma; c’era stato un rapimento e la questione era ancora più delicata perché il rapito, figlio del proprietario di un noto bar di Frascati, era poco più che un bambino.
Cavaliere sapeva benissimo che io non mi occupavo di sequestri, ma sapeva anche che la mia profonda conoscenza dell’ambiente criminale romano sarebbe potuta tornare utile al caso.
Il rapimento di Frascati
Detto fatto. Saluto i miei uomini che rimangono a Milano per completare l’operazione anticrimine, salgo in macchina e mi precipito a Roma.
Sul caso del sequestro era ingaggiata praticamente tutta la Squadra Mobile e a me viene affidato il coordinamento delle indagini.
Da subito emerge che le telefonate dei rapitori provenivano tutte dalla zona del Tuscolano, quartiere di Roma che estende le propaggini della città proprio verso Frascati.
Le prime impressioni ci facevano supporre di trovarci davanti ad una banda locale, probabilmente di criminali improvvisati perché nessun professionista è abitudinario come mostravano di essere loro.
Implementiamo la nostra capacità di intercettazione a tutti i telefoni pubblici della zona con un sistema, il Digisystem, che avevamo già utilizzato per le indagini sul caso Orlandi e dispieghiamo diverse unità sul territorio, così da poter intervenire in tempo reale in caso di intercettazione riuscita.
Accade proprio così.
La telefonata arriva, noi la intercettiamo e gli uomini intervengono subito.
Ovviamente non fermiamo nessuno, ma ci limitiamo a seguire la macchina, una A112, dove il telefonista atteso dal complice alla guida risale per dirigersi verso i Castelli, proprio in direzione di Frascati.
L’ora tarda, il buio e una circolazione di automobili che man mano che usciamo dalla città si fa sempre più rarefatta non sono condizioni ideali per un pedinamento; rischiamo di essere scoperti perché anche se non professionisti del crimine, non era detto che i sequestratori fossero anche stupidi.
Decidiamo di intervenire, blocchiamo la macchina e portiamo i due in commissariato a Frascati dove giochiamo le nostre carte.
La loro prospettiva era collaborare e puntare a uno sconto di pena in sede di processo, oppure rischiare l’ergastolo se l’esito del rapimento fosse stato fatale per il bambino.
Non c’è quasi partita e i due criminali improvvisati, che avevano organizzato il rapimento per risolvere i problemi di una vita di disagi, crollano presto, confessano e rivelano che il bambino era tenuto prigioniero nelle vicinanze di Rocca Priora, praticamente a un passo da Frascati.
Interveniamo subito, arrestiamo il terzo complice carceriere e liberiamo il bambino che, per circa 20 giorni, era stato tenuto nascosto in una buca scavata tre metri sotto terra, coperta da un bandone di lamiera e da terra riportata.
Oltre venti giorni lì sotto, al buio, con privazioni di ogni tipo e con tutte le paure possibili, inimmaginabili per noi, ma che lui aveva visto in faccia.
Un’esperienza orribile e disumana.
Lo tiriamo fuori e ci abbraccia.
In quel momento per lui eravamo la cosa più bella del mondo.
E anche se un poliziotto ne vede di tutti i colori, vi garantisco che accorgersi che il bambino in quei venti giorni d’inferno si era strappato una parte di capelli, mi strinse lo stomaco e la gola.
Il giorno della maglietta
Liberato, finalmente il bambino può tornare a casa, ritrovare i suoi genitori, i suoi affetti e sé stesso.
In macchina mi chiede se sapevo come fosse finita la partita Milan Roma, che si sarebbe giocare proprio dopo il suo rapimento.
Abbiamo perso, gli dico.
Perso chi? mi chiede.
Perso noi, la Roma,.
Credo sia stata la prima gioia del suo ritorno alla vita perché il bambino non era della Roma come avevo ottimisticamente pensato; il bambino ultra felice era del Milan.
Quando lo riportiamo a casa la scena a cui assistiamo tocca tutti noi.
Rimango in disparte, osservo bambino e genitori e mi spoglio della tensione che aveva accompagnato i giorni dell’indagine e i momenti concitati dell’operazione.
È adesso che mi ricordo di una cosa.
Mi allontano un attimo.
Quando torno ho un braccio dietro la schiena e nella mano invisibile stringo la maglietta rossonera con l’autografo di Carlo Ancelotti.
Chiamo il bambino, guarda cosa ho per te gli dico e mentre si avvicina gli porgo la maglietta.
Mi guarda, la prende in mano, la guarda bene girandola e rigirandola, vede il numero, vede la firma, riguarda me incredulo, mi salta addosso e mi abbraccia.
La maglietta aveva trovato il suo proprietario.
Di quel bambino non ho mai saputo più nulla, ma sono sicuro che quella maglietta gli avrà fatto buona compagnia a lungo.
Ecco questa è la storia di una maglietta.
Ora anche voi sapete che può esistere una maglietta della felicità, quella del bambino, la mia e anche quella di Carlo Ancelotti che di questa storia non ha mai saputo nulla, ma che sono sicuro avrebbe fatto felice anche lui.