Un ragazzo del ’99 Ernest Hemingway. Non come i nostri andati sul Monte Nero, sul Carso o a passare e ripassare il Piave. Non come i nostri andati e i milioni non tornati.
Però nel 1899 Domine Iddio si deve essere concentrato perché ha fatto nascere uomini che dopo non si son mica più visti tante altre volte.
Uomini oltre, come Ernest da Oak Park, Illinois, ma anche come Mario, Carmine, Giuseppe, Antonio, figli dei nostri borghi e delle nostre città, diventati nomi su marmi scoloriti per amor di Patria.
Oltre
Ernest Hemingway è stato uomo senza categorie, senza perimetro, senza definizione.
Appassionato di vita, avido di vita, ingordo di vita, attratto da tutto e dal contrario di tutto a patto che non ci fossero patti, perché la fame di vita non è compatibile con lo scendere a compromessi. Vivo e vitale, di Hemingway il vitalismo senza mezze misure è stato il mai rinnegato spirito guida.
Neanche quando è andato oltre, scegliendo da vivo di non compromettere ulteriormente una vita che premeva per presentargli il conto e mettere all’incasso la scadenza.
Estremo
Cresce d’estate il piccolo Ernest. Cresce nella wilderness che circonda il lago Wallon, Michigan, dove i genitori avevano comprato una casa per la villeggiatura. È qui, tra lago, boschi e orsi che Ernest scopre il mondo e impara a fronteggiare la natura. È qui che combatte le sue prime battaglie, sperimenta la paura, forma il carattere, scopre il coraggio, assapora le prime sfide. Con ogni probabilità è qui che diventa Ernest, l’uomo che oggi si sarebbe guardato intorno sentendosi estraneo e a disagio nel brodo conformista della correttezza culturale.
Per lui l’estremo non era un luogo e meno che mai una definizione. Per lui l’estremo era vocazione, stato di profondità leggera dell’animo, destino irrinunciabile fatto di passione mai negata, anzi esibita.
Passione esibita quando si misurava nello scontro quotidiano con il limite, vuoi che fosse la scrittura o recuperare feriti sul fronte orientale italiano della Grande Guerra oppure raccogliere informazioni per i servizi segreti americani, ma anche ingaggiare un marlin in una lotta all’amo impari per l’uomo, mirare il colpo fatale in un safari di caccia grossa, piuttosto che vivere il rito ancestrale della tauromachia.
Passione incompresa quando diventava whiskey e tabacco, perché non è vero che lui bevesse o fumasse a dismisura. Ernest, semplicemente, diventava whiskey e tabacco, ne diventava essenza lasciandosene prendere fino in fondo.
Passione cercata nella sua voracità di amore, anche di quelli frettolosi e occasionali, quando tutto diventava carne e respiro e piacere.
Uomo oltre, Ernest, con amicizie di uomini altrettanto irregolari come Ezra Pound e Che Guevara, uomini che, a ben vedere, anche loro oggi non avrebbero trovato alcun agio a muoversi nel brodo conformista.
Sport vitale e vitalistico
E non poteva che essere vitalistico il pensiero di Ernest Hemingway sullo sport.
Sport praticato, immaginato e raccontato. Sport di cui fa sintesi in una frase che è un manifesto. “...Ci sono solo tre sport: il combattimento dei tori, le gare automobilistiche e l’alpinismo il resto sono semplici giochi”. Senza giri di parole e senza possibilità di equivoco scrive così in “Morte nel pomeriggio”.
Tre più uno, però. Iniziato a praticare da adolescente, il pugilato non uscirà mai dalla vita di Hemingway e sarà al centro di un suo racconto pubblicato nel 1927, “Cinquanta bigliettoni”.
Anzi, tre più due. La pesca sportiva, passione immensa. Il marlin non un pesce, ma un totem. Memorabili le sue battute, il record mondiale del 1938 con i sette marlin pescati in una sola uscita nella striscia di mondo tra Key West, Bahamas e Cuba. Il mare è quello, il vecchio è lui.
Per Hemingway anche lo sport è pensiero da tradurre in azione estrema.
Azione che è volta alla ricerca della sfida continua e soprattutto fatale, quella dello scontro tra elementi primordiali e simbolici di altre dimensioni, vuoi che fosse la sfida alla velocità, al mare, alla potenza del toro, al pugno del più forte o alle vette regine del Mondo.
Nella lotta impari, l’epilogo tragico è nel conto delle cose, ma la tragedia in Hemingway non è esito sfavorevole della vita, è nobiltà di destino.
L’azione diventa così scontro, ma anche partita aperta dove tutto è possibile e con in palio sempre una sola posta: la Vita che non è alter ego della Morte, ma potenza della Morte superiore.
Hombre vertical
In estate, proprio come quando tutto era iniziato nei boschi intorno al lago Walloon, tutto finisce.
La malattia, i ricoveri, gli elettroshock, le paure, gli incubi, la depressione.
La vita gli stava sfuggendo di mano e lui non poteva permetterlo.
L’ultima parola doveva essere la sua.
Il 2 luglio del 1961 è una domenica a Ketchun, Idaho, e mentre la gente si prepara per andare a Messa, Ernest oppone il gran rifiuto da hombre vertical.
“…Un uomo deve combattere anche contro qualunque probabilità, senza preoccuparsi dell’esito”, così aveva scritto. Anche quando questo esito è affidato al bacio in bocca della canna di un fucile. È così che la tragedia compie la vita e diventa senso compiuto. Dopo solo buio e silenzio.
Nella sua vita non ordinaria, neanche la morte poteva esserlo.
Ma lui era oltre.
Lui era Ernest Hemingway.