Partiamo subito da un concetto: “la pigrizia è un sintomo e non una causa”. Elena Giulia Montorsi, psicologa dello sport, chiarisce che quando si è in presenza di figli pigri occorre chiedersi perché. Da cosa sia creata questa pigrizia. Vediamo come.
L’ambiente esterno
Comincia a praticare uno sport e poi decide di smettere?
“L’indagine deve partire dal suo rapporto con l’ambiente sportivo che frequenta, per rintracciare eventuali problemi con un compagno. Chiedere semplicemente che cosa non gli piace di quello sport andando oltre le prime risposte evasive”.
Cosa non fare?
“Forzarli a continuare se ai figli quello sport non piace, se non si trovano a loro agio, a prescindere dalle motivazioni. E per motivazioni intendo anche il fatto che quel determinato sport piace tanto ai genitori. Anche loro sono parte dell’ambiente esterno che può causare il suo rifiuto”.
Il rapporto con sé stesso
Il timore di deludere l’allenatore e il confronto con gli altri, fratelli compresi, sono due elementi da non sottovalutare.
“Vuol dire che non è il suo sport – incalza Elena Giulia Montorsi – e in questi casi viene percepita di più la fatica dell’allenamento che la soddisfazione di sé. La passione, al contrario, può superare timidezze, insicurezze e fatica. In questi casi, quindi, lasciate i figli liberi di passare ad un’altra disciplina oppure create situazioni che lo portino a sperimentare nuovi mondi giocando. La scelta è sua”.
Agonismo individuale e di squadra
Sport individuale o di squadra? Ci si chiede spesso che cosa sia più appropriato in base al carattere del bambino. “Deve piacergli. Poi che la pratica implica che sia insieme ad altri o da solo, quello poco importa. Se vogliamo cogliere le opportunità derivanti dall’attività singola e in team – aggiunge la psicologa – va detto che la squadra insegna a condividere esercitando un contributo, in positivo e in negativo; negli sport individuali, invece, c’è più confronto rispetto agli altri atleti e si instaura un certo tipo di rapporto con i limiti personali. Superabili, ovviamente, anche grazie all’aggregazione in allenamento”. Al concetto di superamento limiti viene naturale collegare un’idea di agonismo. La svogliatezza rispetto alla competizione si può, si deve, stimolare? “Ci sono persone a cui piace competere e persone semplicemente appassionate. Non bisogna mai giudicare l’assenza di agonismo – spiega l’esperta – perché se non fa le gare non vuol dire che nella vita non farà mai nulla. Se amano uno sport va bene, l’agonismo è un plus”.
La pressione genitoriale
La domanda viene a cascata: è possibile sostenere un figlio a fare sport senza schiacciarlo? “Come ha sottolineato Jannik Sinner, i genitori – dichiara Elena Giulia Montorsi – devono comprendere che i ragazzi possono scegliere lo sport e possono divertirsi, a fronte del fatto che siano stati costruiti i giusti valori morali di impegno e determinazione. Questo permette di portare avanti un compito fino all’obiettivo prefissato. L’obiettivo può essere irraggiungibile se imposto dagli adulti”.