Gianni Minà ci credeva.
Ecco, oggi ricordarlo è un omaggio comune.
Volto e presenza familiare nelle nostre case per decenni, testimone di cronaca e di storia, spesso sportiva ma non solo, Gianni Minà non si è mai limitato a farne il resoconto in senso stretto. Nei suoi reportage, nelle sue interviste c’era qualcosa in più.
Gianni Minà non sorvolava sulle cose, non prendeva le notizie come se fosse un acchiappafarfalle; lui entrava nelle storie delle persone, capi di Stato, campioni o gente comune che fosse. Entrava e spaziava. Parlava di sport, ma non parlava mai solo di sport. Parlava di politica, ma non parlava mai solo di politica. Così sanno fare solo quelli capaci di istruire le parole sull’onda delle emozioni.
Gianni Minà prima di parlare, sentiva, ma non fraintendete, non parlo di udito; lui sentiva con tutto sé stesso, non con le orecchie, ma con tutto l’insieme complesso e articolato della sua sensibilità e dei suoi sogni. Innamorato di cause a volte perse, non si è mai fatto cruccio del farsene vanto ostentando una fedeltà a sé stesso di cui non possiamo non ringraziarlo.
In questo, oltre che nel modo di fare giornalismo, Gianni Minà è stato un esempio.
Le sue interviste non sono mai state solo interviste, ma racconti umani
I ritratti che ha lasciato di Fidel Castro, Muhammad Alì, Maradona solo per citare i più noti, sono affreschi emotivi che vanno oltre quello che ciascuno di noi può pensare dei personaggi in questione. Quando parlava con loro e di loro a Gianni Minà non uscivano solo parole dalla bocca, ma brillavano gli occhi. Capita a pochi.
Oggi, in un mondo dell’informazione sempre più frettoloso dove la notizia scorre veloce incalzata da quella successiva, tutti si esibiscono in piroette verbali, ma quasi a nessuno brillano gli occhi.
Non serve ora fare il resoconto di tutto quello che ha fatto nella sua vita giornalistica e culturale. Non serve.
Quello che serve è ricordare che Gianni Minà ci credeva.