Domenica è sempre domenica… Su musica e parole di Garinei, Giovannini e Gorni Kramer, così cantavano Mario Riva e Renato Rascel; gli anni ’50 stavano finendo, Il Musichiere incollava milioni di persone nel rito allora collettivo della televisione a canale unico, l’Italia del boom era ottimista e guardava al futuro.
Domenica è sempre domenica, certo, ma qualche domenica è un po’ più domenica delle altre.
Il 26 novembre è stata una di queste. Non so se qualcuno la canterà mai, ma a futura memoria diamole subito il nome che le spetta: quella di ieri, con i suoi esiti sportivi straordinari, è stata la domenica dei campioni. Jannik Sinner e la squadra del tennis, Pecco Bagnania e la Ducati hanno dato spettacolo e vinto.
C’è stato anche altro però. Vittorie lungamente attese e primati sono sotto gli occhi di tutti.
L’altro, quello di cui vogliamo parlare, si chiama esempio.
Protagonista assoluto lo sport
Tennis e moto GP, diversi e lontani, ma poi non così tanto. Solo qualche centinaio di chilometri li separano mentre, quasi in contemporanea, il Palacio de Deportes José María Martín Carpena di Malaga dal Circuit Ricardo Tormo di Valencia si tingono di maglie azzurre e di rosso Ducati.
Azzurro e rosso che in questo caso non sono i colori destinati a scontrarsi nelle esercitazioni militari fatte a tavolino, ma sono i colori di due eccellenze italiane.
Eccellenze che hanno nomi e cognomi, che sono uomini, talento, sacrificio e squadre. Eccellenze che sono simboli ed esempio e Dio solo sa quanto questa Italia abbia bisogno di simboli ed esempi.
Mr. Davis e la sua Coppa
Grande storia quella della Coppa Davis. Una storia che Dwight Filley Davis, americano del Missouri nato quando l’eco della guerra civile non si era ancora spento, non avrebbe mai immaginato. Prima di cavalcare una lunga e importante carriera politica, Mr. Davis amava il tennis, giocava e vinceva. Tra il 1898 al 1904, quando partecipa alle Olimpiadi di casa, quelle di St. Louis, è uno dei più forti tennisti a stelle e strisce. A molti sarebbe bastato, ma l’uomo era ambizioso, guardava avanti e voleva lasciare il segno. Nasce così, nel 1900, l’International Lawn Tennis Challenge, torneo che già dal nome tradisce aspirazioni di ampie vedute. Ovviamente una tale ambizione doveva avere anche un simbolo. Sei chili di argento, un gioielliere di Boston e la cosa è fatta. Una Coppa bella come poche e dall’inequivocabile forma di insalatiera, cosa che le garantirà un nome affettivo che passerà alla storia insieme a lei e che, a memoria del suo ideatore, dal 1946 diventerà la Coppa Davis. Una coppa che passerà di mano in mano, ma non troppo visto che nel palmares troviamo 32 vittore statunitensi, 28 australiane e 10 a testa per Francia e Gran Bretagna. Poi ci sono gli altri. Poi ci siamo noi.
Ital Davis
Piccola grande storia la nostra. Otto finali, la prima giocata nel 1960 a Sidney contro l’Australia. Perdiamo 4-1, ma loro erano di altra dimensione. Orlando Sirola giganteggia col suo 1,97, ma perde. Nicola Pietrangeli ci regala il punto della bandiera e inizia a così a legare indissolubilmente il suo nome a quello delle nostre avventure in Coppa Davis. Il recordman italiano della Davis – 164 incontri di cui 54 di doppio con 120 vittorie di cui 78 nel singolare – è proprio Nicola Pietrangeli. A questo è da aggiungere la prima e fino a ieri unica vittoria italiana, quella cilena del 1976 che lui capitana, con tutta la nota storia che si porta ancora dietro.
Ieri, a Valencia, il punto a capo. Non credo azzardato dire che la partita di Santiago del 1976 sia finita solo ieri. Nicola Pietrangeli, il capitano di ieri è chiamato ad alzare la coppa insieme alla squadra che l’ha vinta oggi. Adriano Panatta – senza nulla togliere a Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli -, uomo simbolo di quella vittoria, la commenta in diretta RAI pensando con una punta di amaro ai 47 anni passati in un attimo, ma credo felice di quello che nel frattempo ha fatto e di mettere la parola fine alla partita del 1976.
La squadra del futuro
A Valencia il tennis italiano ha messo in campo il futuro e ha vinto. Non è solo una vittoria del tennis, è un paradigma che può valere per tutto. Per vincere bisogna scommettere sul futuro, prepararlo e giocarlo. Come ha fatto Jannik Sinner – anche lui senza nulla togliere agli altri, oggi simbolo di questa vittoria -, come ha fatto il capitano Filippo Volandri, appena un paio di mesi fa assediato dalle critiche per le sue scelte di squadra. Così come una scommessa sul futuro sono i 21 anni di Lorenzo Musetti, i 22 di Matteo Arnaldi e anche la maturità dei 28 di Lorenzo Sonego. Una scommessa sono anche i 27 anni di Matteo Berrettini, alle prese con il suo recupero fisico che non gli fa dimenticare lo spirito. Aggregarsi da non giocatore alla squadra ed esserne il primo tifoso fa bene al suo e allo spirito di tutti.
La Coppa Davis di Valencia è una premessa e una promessa per un futuro che ci vedrà mettere in campo tennisti tra i più forti al mondo. Farà bene al tennis, che vedrà ragazzini iniziare a palleggiare con la voglia di emulare i campioni, farà bene allo sport e a questa Italia troppo spesso strattonata al ribasso.
Rombo rosso
Ducati non è un brand, non un motore e neanche una moto. Ducati è anima.
L’altra rossa italiana, una storia iniziata a Borgo Panigale nel 1926 facendo tutt’altro. Una storia che passa per le macerie del 12 ottobre 1944: Operazione Pancake, 732 bombe da 250 kg, 33 centrano la fabbrica e la distruggono. I Ducati – Adriano, Bruno e Marcello – non mollano. La guerra finisce e loro si rimettono in piedi. Prima ciclomotori, poi qualcosa in più. Poi le corse. Strada e circuito. Poi record e successi, il mercato che cambia, l’invasione giapponese della metà degli anni settanta, l’affanno e ancora una volta la caparbietà, dna della Motor Valley.
Nel 2012 l’accordo con Audi; proprietà tedesca, storia nostra, futuro da disegnare.
Ad oggi tante belle cose fatte e tante altre che aspettano dietro l’angolo.
La domenica dei campioni è anche di Pecco Bagnaia e della Ducati.
A trionfare sul Circuito di Valencia sono loro. Campione del mondo MotoGP, lui. Campione del mondo costruttori, lei. Bagnaia campione del mondo per due anni di seguito. Non accadeva per noi dal bis di Valentino Rossi – che di MotoGp ne ha vinti sei – nel 2008 e 2009. Nel mezzo lo srapotere spagnolo
Lo scorso anno sul cupolino di Bagnaia il numero 63, quest’anno ad accompagnarlo al successo è stato il numero 1. Un destino. Il numero della MV Agusta di Agostini. Con i suoi sette titoli nella 350 e gli otto nella 500, più che un campione Agostini è un mito.
Ebbene Pecco Bagnaia è il campione che non ti aspetti perché sfugge allo stereotipo mediatico. Con i suoi 26 anni che promettono altri successi, Bagnaia è il campione della porta accanto, vita normale, interessi normali e un bassotto – Turbo – con il quale, a buon ragione, parlerà come facciamo tutti noi che conviviamo con un quattrozampe.
Padrone del tempo, capace di dosare potenza, slancio e prudenza, Bagnaia è l’occasione per sdoganare il vituperato aggettivo, quel “normale” mediaticamente troppo spesso messo all’angolo, malintesa accezione denigrante piuttosto che esempio edificante.
Storie e simboli
Dalla domenica dei campioni ci portiamo a casa successo, soddisfazioni e voglia di futuro.
La domenica dei campioni è una bella storia e anche lei, come tutte le storie, ha i suoi simboli.
Jannik Sinner e Pecco Bagnaia sono campioni, simboli ed esempio.
Esempio. Una volta, alle elementari, il maestro ti faceva riempire i fogli con le righe larghe scrivendo più e più volte la stessa parola. Per imparare, per correggere un errore, per mandare a memoria, persino per migliorare la calligrafia. Qualche volta, in effetti, anche per educativa e blanda punizione.
Esempio, sostantivo maschile. Dovremmo scriverlo più spesso. Per non perderne di vista il valore, per sviare dal clamore artefatto.
Jannik Sinner e Pecco Bagnaia, persone ed esempio oltre che campioni.
Dovremmo raccontarli più spesso gli esempi.
Solo così possiamo pensare di vincere tutti. In campo, in pista e fuori.