Marcava stretto Tarcisio, marcava e non mollava mai, anzi voleva per lui l’avversario più forte perché ogni volta che entrava in campo era una sfida dalla quale non tirarsi indietro.
E come lo avrebbe mai potuto fare lui, uomo di confine, friulano di Ruda, con quel nome che affonda radici nel greco antico, lui che di greco aveva il piglio e il fisico dell’eroe, quelli dell’epica che ti immaginavi leggendone le gesta sui libri di scuola e che più di uno avrà immaginato con quel fisico e quel volto.
Tarcisio non si tirava indietro, il campo era suo in ogni angolo, correva, fermava, inseguiva, smarcava e qualche volta segnava anche, mettendo in rete pallone, anima e sudore, proprio come fa un terzino che al goal non è destinato, un terzino che travalica campo e ruolo per andarsi a mettere sotto rete seguendo istinto e sfide, non regole che lo vorrebbero altrove.
Venti anni di calcio giocato negli stadi di un’Italia che cambiava pelle, un’Italia che conquistava dignità e benessere, un’Italia che quel 17 giugno 1970 era incollata al televisore e che lui fece balzare tutta in piedi a lanciare braccia al cielo, a urlare forte e a prendere per mano il sogno quando lui, il terzino fuori posto, segna il goal che fa capire che non tutto era perso.
Il goal che fa capire in campo e fuori campo che quella partita contro la Germania Ovest si poteva vincere, il goal che ristabilisce il pareggio sul 2 a 2 al primo tempo supplementare, uno di quei quattro goal che faranno diventare la partita all’Azteca di Mexico City la partita del secolo, come ancora ricorda una targa di bronzo che proprio lì fa bella mostra e parla al futuro.
Una Roccia.
Sì, Tarcisio era una roccia e così era chiamato, lui con quel fisico che non lasciava possibilità di equivoco, possente e ugualmente veloce, un fisico e un viso che ti facevano capire che lui non avrebbe mollato mai. La nuova partita inizia adesso, la Roccia è di nuovo in campo e saranno in molti a volerlo in squadra.
La cosa bella è che questa è una partita che non finirà mai.