Jackson Street Hospital, Chinatown, San Francisco. Grace Ho attende, è sola, ma tranquilla; ha già partorito tre volte, sa come vanno le cose. Il marito Li Hoi-chuen, cantante di opera cantonese, è a New York per una tappa della tournée americana. Quando sono partiti da Hong Kong sapevano che lei avrebbe partorito lì.
Siamo nel 1940, il mondo iniziava a impazzire, ma è l’anno del Drago, nella tradizione cinese un anno fortunato. Il 27 novembre Grace Ho si rilassa pensando che il bambino appena nato sarà doppiamente fortunato; non solo è l’anno del Drago, ma sono anche le prime ore del mattino, le ore del Drago. Non può essere un caso. Nel tempo saranno in molti a chiamare quel bambino piccolo drago.
Al momento delle formalità Grace Ho arrotonda il cognome cinese Li in un più americaneggiante Lee e lo chiama Lee Yuem Kham; significa “protettore di San Francisco”.
“Eravamo soli – dirà poi – avevo solo lui a proteggermi”. C’è un destino in questa frase.
Al momento di trascrivere il nome, un’infermiera decide però che il bambino debba avere un nome ancora più americano ed è così che sul certificato scrive Bruce, Bruce Lee.
L’America dura poco
Ancora qualche mese e poi si torna tutti a Hong Kong. Appena in tempo.
Il 7 dicembre del ’41 i giapponesi bombardano Pearl Harbour e anche l’Asia s’infiamma. Il 25 dicembre, dopo diciotto giorni di battaglia, Hong Kong ammaina la bandiera inglese e diventa territorio giapponese. Quella di Bruce è un’infanzia di guerra; ricorderà poco, ma il fratello racconta che quando dalla finestra della casa di Nathan Road vedevano passare gli aerei giapponesi, Bruce agitava i pugni al cielo. Chissà cosa sapeva, chissà cosa sentiva.
La tempesta finisce
Dopo anni di guerra, milioni di morti e due bombe atomiche sul Giappone, Hong Kong torna territorio britannico d’oltremare. La guerra civile cinese invece finirà solo nel 1949 con la vittoria dei comunisti di Mao, ma lì non arriva. Grazie alle amicizie paterne il piccolo Bruce inizia a recitare; ha appena sei anni quando compare per la prima volta in un film. È solo l’inizio; rigorosamente nelle pause scolastiche estive, di film ne girerà una ventina. Ne ricava pochi soldi, un primo accenno di notorietà, ma soprattutto una confidenza con le macchine da presa che gli verrà utile in futuro.
Il set che lo forma veramente è però un altro.
Bruce cresce per strada dove di regola ce n’è una sola: quella del più forte. Sono gang di ragazzini quelle che sciamano per Kowloon; lì, in quel sobborgo, se non sei il più forte devi essere almeno dalla parte dei più numerosi. Le risse sono all’ordine del giorno, non lo spaventano, non le evita mai e spesso le procura. I genitori cercano di tirarlo fuori dalla strada, lo fanno studiare in scuole religiose, prima al La Salle College e poi al Saint Francis Xavier’s College. Non cambia molto.
“Iniziai a imparare il Kung Fu solo quando iniziai a sentirmi insicuro. Continuavo a chiedermi cosa mi sarebbe successo se la mia banda non fosse stata nei paraggi”.
Ecco, le cose cambiano solo quando Bruce inizia a pensare questo.
“Quando l’allievo è pronto, incontra il Maestro” recita un detto zen.
È un compagno di banda, William Cheung, a portare Bruce nella scuola di Kung Fu più importante di Hong Kong, quella del Maestro Yip Man. C’è un problema però. Nato negli Stati Uniti e mamma con bisnonno tedesco: Bruce Lee non è un cinese. C’è un problema perché c’è una regola: il Kung Fu poteva essere insegnato solo ai cinesi. Era così dal tempo della rivolta dei boxer e così continuava a essere. William Cheung intercede, insiste e insiste ancora. Non credo sia stato lui a far cambiare idea a Yip Man, mi piace pensare invece che il Maestro abbia intuito che in quel ragazzo c’era qualcosa di speciale. “Il mio istruttore, il professor Yip Man, capo della scuola di Wing Chun, veniva da me e mi diceva: rilassati e calma la tua mente. Dimenticati di te stesso e segui i movimenti dell’avversario. Lascia che sia la tua mente, la realtà di base, a fare il contro movimento senza alcuna interferenza. Soprattutto, impara l’arte del distacco”.
Yip Man sarà una delle persone più influenti nella formazione di Bruce Lee, lo vedrà crescere e ne vedrà il successo. Incredibilmente, attraverserà il ponte solo pochi mesi prima di lui.
Gli anni della formazione
Bruce continua a studiare, continua a fare risse in strada, corre dietro alle ragazze, trova tempo per appassionarsi al ballo, nel 1957 diventa il campione nazionale di cha cha cha, ma è il Kung Fu che lo forma e che diventa la sua vita. “Come attore, come artista, come essere umano ho imparato tutto dalle arti marziali” lo dice e c’è da credergli. Le strade di Hong Kong gli diventano strette, le risse sono sempre più numerose, i problemi con le bande e con la polizia consigliano ai genitori di fargli cambiare aria.
Vita americana
Nel 1959, 100 dollari in tasca e via, destinazione Stati Uniti. Prima San Francisco da un amico del padre, ma dura poco. Poi Seattle, dove trova alloggio e lavoro nel ristorante di Ruby Chow, anche lei conoscente del padre. Lavapiatti o cameriere a secondo di quel che serve al momento. Il copione è perfetto, il solito cinese che va a lavorare nel solito ristorante di una Chinatown americana. Questa volta però c’è qualcosa in più.
Bruce Lee, per ius soli, è cittadino americano, talmente americano che viene chiamato alla visita di leva: 170 cm di altezza, 63 kg di peso, un fisico scolpito, un problema di vista e un testicolo non sceso. Inadatto al combattimento, riformato.
Lavora, finisce gli studi, si diploma all’Edison Technical Institute, nel 1961 si iscrive alla Washington University, facoltà di filosofia, non si laurea, ma è qui che conosce Linda Emery che presto diventerà Linda Lee.
Il Kung Fu è la sua vita. Si allena ogni giorno, in qualunque modo e in qualunque posto gli sia possibile, esegue taolu persino in cucina, e inizia a dare lezioni private in una piccola sala che apre nel 1960, il Jun Fan Gung Fu Institute. È così che conosce Taki Kimura; nippo-americano di venti anni più grande, cinque anni di annichilimento passati da internato nei campi di concentramento americani, Taki diventerà il migliore amico di Bruce.
Gli anni della maturità
Studia, si allena, combatte, ma soprattutto Bruce inizia a maturare una propria visione della vita e delle arti marziali. Forte di un insegnamento tradizionale, si fa strada in lui la suggestione di cambiare le regole, ma non per averne altre, per non averne proprio. Studia la scherma occidentale, è affascinato dal pugilato, perfeziona il wing chun, interiorizza lo Ch’an, espande la sua comprensione e la sua sensibilità, mira all’uno del Tao che è la vera forza dell’universo, unisce corpo e mente, la meditazione diventa movimento, la velocità di esecuzione diventa energia sprigionata in un solo istante. In un solo colpo o in tanti colpi ripetuti che diventano uno. Robert, il fratello minore, racconta che “quando assisteva a un incontro di boxe in televisione era capace di predire se un pugile stava per sferrare un gancio destro o un montante sinistro. Basava che ti guardasse per indovinare i tuoi pensieri. Diceva agli allievi di colpire e, quando il pensiero passava nella loro mente, lui lo capiva”. Linda ricorda invece che quando voleva dimostrare che il flusso di energia che sale dalla vita è più potente in un diretto che nella combinazione spalla-gomito “sferrava un diretto a un pollice dal plesso solare e faceva volare l’avversario attraverso la stanza”.
1964.Atto primo
Il 2 agosto 1964 all’auditorium municipale di Long Beach si svolge l’International Karate Championships. Lo promuove Ed Parker, uno dei grandi Maestri del Kempo Karate americano.
Bruce Lee è già un nome ed è tra gli ospiti invitati ad esibirsi. Bruce, oltre a ripetute flessioni a due dita usando pollice e indice di una mano, esegue anche il pugno di un pollice. In piedi, piede destro in avanti, ginocchia leggermente piegate, braccio destro parzialmente esteso, il suo pugno destro era a circa un paio di centimetri dal petto del compagno. Senza ritrarre il braccio destro, Bruce sferra il pugno con forza mantenendo per lo più la sua postura. L’esito è spettacolare: il compagno letteralmente vola all’indietro e ricade su una sedia posizionata qualche metro dietro.
Sugli spalti, nel pubblico che non crede ai propri occhi, Jay Sebrig guarda e prende nota. Lui fa il parrucchiere, ma non uno qualunque; lui è il parrucchiere di divi e produttori, amico e forse anche ex fidanzato di Sharon Tate: qualche anno dopo, morirà con lei la sera di Cielo Drive per mano di Charles Manson e delle sue bestie.
Agosto per Bruce non segna solo il successo dell’esibizione di Long Beach; il 17 agosto, a Seattle, sposa Linda.
1964. Atto secondo
L’unica cosa certa è che Bruce Lee e Wong Jack Man abbiano combattuto. La versione più diffusa è quella di Linda, secondo la quale la sfida era stata lanciata dalla comunità cinese di San Francisco che voleva impedire a Bruce di insegnare Kung Fu agli americani. Per farlo incarica un suo campione, Wong Jack Man appunto, di combattere con Bruce che, se avesse perso, sarebbe dovuto tornare nei ranghi della tradizione. La versione di Linda è che il combattimento sia durato pochi minuti e che, addirittura, in questi pochi minuti, Wong Jack Man abbia anche cercato di scappare dai colpi di Bruce. Rimasto a lungo in silenzio, solo qualche anno dopo Wong Jack Man avrebbe invece dichiarato che il combattimento era nato da una sfida lanciata dallo stesso Bruce alla comunità cinese e che durò circa una mezz’ora finendo senza vincitori.
L’unica cosa certa è che il Jun Fan Gung Fu Institute non smette di accettare allievi non cinesi e, dopo la prima sede di Seattle, nel 1964 Bruce Lee ne apre una seconda a Oakland.
Bruce Lee diventa il Jeet Kune Do, la “via del pugno che intercetta”. Liberazione personale, realizzazione personale, ricongiunzione personale. Le arti marziali non saranno più come prima
1964.Atto terzo
Sembra sia stato proprio il parrucchiere Jay Sebring a raccontare dell’esibizione di Bruce Lee a William Dozier, produttore di Hollywood alla ricerca della faccia giusta per un film di genere sulle arti marziali. Dozier recupera i filmati dell’esibizione e anche lui rimane impressionato da Bruce. Lo convoca, gli fa fare tutta la trafila del caso e poi lo scrittura. Quel film non si farà, ma Bruce sarà Kato nella serie Il calabrone verde, 26 puntate in onda tra il 1966 e il 1967 sul canale ABC. La serie non ha un successo clamoroso, ma Kato alias Bruce Lee sì.
L’attore
Bruce lee sfugge a ogni definizione. Artista marziale, filosofo, Maestro e sì, aggiungiamo anche attore, ma con una consapevolezza. Bruce Lee recitava senza recitare, così come combatteva senza combattere. Lui si metteva in scena, si mostrava e lo faceva seguendo la sua massima dell’essere onesto con sé stesso. Lasciava che le cose avessero il loro corso, si adattava e agiva non cambiando la realtà, ma diventando la realtà. Sul set era energia. La stessa di un combattimento. Se la virtù dell’attore è quella di diventare il personaggio cambiandolo ogni volta, allora Bruce Lee o non era un attore oppure era un attore senza virtù.
Rovesciamo la medaglia. Sullo schermo Bruce Lee era sé stesso. Gli sguardi, le espressioni, il dito che sfiora il naso prima di combattere, il kiai, il senso di giustizia, l’arroganza e persino la cattiveria. Nessuna finzione scenica. Solo sé stesso. Uno, non artista marziale prima e attore poi. Uno, con il prima e il poi che si muovono in maniera indistinta e consapevole, proprio come corpo e mente, Yin e Yang, uno e l’altro, uno con l’altro, uno è l’altro.
Quattro i film da protagonista tra il 1970 e il 1973, altri due montati postumi con spezzoni non usati. Non serve dire di tutti. Ne scelgo uno, e di questo scelgo una singola scena.
L’occidente, i gatti e il Colosseo
A Hong Kong Bruce Lee era una star, nelle comunità cinesi del mondo per tanti era diventato il simbolo del riscatto. Non più il cinese che subisce, ma il cinese che agisce. Per tanti, ma non per tutti. Per qualcuno, era un nemico. Di fatto Bruce Lee aveva scardinato tanti interessi, compresi quelli delle case di produzione cinesi largamente infiltrate dalla Triade.
L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente è il terzo film di Bruce Lee, ma possiamo considerarlo un’opera prima. O ultima. Tutto suo: sceneggiatura, regia, azione e in parte anche produzione. Una storia cinese su uno sfondo romano non si era mai vista, ma non è un grande film; lo sappiamo tutti, lo sapeva anche lui. La storia è debole, la regia inevitabilmente fragile, le azioni, però, sono da impazzire e, tra l’altro, portano alla ribalta un oggetto che diventerà presto un feticcio: i nunchaku.
Con ogni probabilità se Bruce non fosse morto, il film sarebbe uscito solo sul mercato asiatico, forse in Italia, realisticamente mai in America.
Poi le cose sono andate diversamente.
La scena madre
Non dico nulla di nuovo. La scena madre è arcinota. Bruce Lee e Chuck Norris, al tempo campione americano di karate e amico nella vita di Bruce, combattono al Colosseo. Yin e Yang, bene e male. Bruce aveva chiesto personalmente a Chuck di fare quella parte. Voleva battersi contro il più forte.
Il combattimento è epico e denso di significati. Chuck è nel suo karategi, ma prima di combattere si toglie la giacca. Soprattutto si toglie la cintura nera. Si combatte senza regole, senza gerarchia, senza rigore.
C’è però una presenza che sovrintende al combattimento, che lo rende puro nella sua essenza, che lo restituisce alla sua energia senza negatività, senza odio: un gatto. Il gatto osserva, tutela, libera e all’inizio del combattimento il suo non è un miagolio, ma un kiai.
Dieci minuti di azione, oltre venti ore di riprese, in parte al Colosseo, ma in gran parte in un ambiente ricostruito in studio, a Hong Kong.
Citazione immensa. Bruce Lee saltella con la guardia bassa; non serve molta fantasia per vederci l’Astrodome e Alì, il più grande. Commozione anche cinquanta anni dopo.
La fine è scritta sin dall’inizio. Chuck muore, ma prima di andare via Bruce lo ricompone, lo copre con la giacca, gli ripone la cintura sul petto, lo prepara per il viaggio. È dignità ricomposta, pietas, virtù superiore del vir. Occidente e Oriente. Uno.
Il suo tempo
Ho pensato a lungo che Bruce Lee sia è andato avanti troppo presto, che abbia passato il ponte prima del tempo. Poi ho cambiato idea e ho realizzato che quello doveva essere il suo tempo.
20 luglio 1973. 33 anni. Un numero, un’età ricorrente. Senza fare altri paragoni, anche Alessandro Magno muore a 33 anni. Il tre è un numero mistico, il punto d’incontro tra l’asse e il piano, il centro della croce.
Bruce Lee non credeva in Dio, “Se esiste un Dio” diceva “bisogna cercarlo in sé stessi”, ma aveva un’essenza spirituale, i pensieri che ha fissato nei libri che ha scritto sono pensieri alti.
Sulle cause della sua morte aleggiano ancora ombre di mistero. Quando cade una stella è difficile arrendersi alla ragione.
A Hong Kong 12.000 persone partecipano al suo funerale e bloccano la città; nei giorni seguenti ci saranno anche disordini per protestare contro la lentezza e l’inconcludenza delle indagini volte a scoprire la casua della morte.
A Seattle altro funerale. James Coburn, Steve McQueen, Chuck Norris, Dan Inosanto, Taky e Robert Kimura portano a spalla il feretro. Amici fraterni. Dopo averlo ricordato con breve pensiero, James Coburn lo saluta dicendo “grazie e arrivederci”. Poi lancia i guanti sul feretro. Uno ad uno lo fanno anche gli altri.
Bruce Lee. Uno. Unico.