Mi ha raccontato tanto. Nella nostra conversazione mi ha parlato di vita e di numeri, ma soprattutto di passione e di futuro. Il futuro che immagina e che caparbiamente vuole contribuire a realizzare. Mi ha parlato con partecipazione palpabile perché nelle cose che racconta ha scorto significati profondi della vita e non lo nasconde. E della vita, la bicicletta è raffigurazione e metafora assoluta.
Lui è Gianluca Santilli. Avvocato, consulente di grandi aziende e di fondi d’investimento, sportivo da sempre, approdato al ciclismo in età matura, Gianluca mi dipana numeri e visione della bikeconomy come solo lui sa fare. Approccio trasversale e multidisciplinare, il nome non tragga in inganno. La bikeconomy mette in fila numeri, certo, e lo fa con una visione organica di ambiti e ricadute come mai prima. Ma la bikeconomy è soprattutto un approccio culturale, una filosofia della bicicletta e della sua centralità nel ripensamento della mobilità urbana. Forse anche dello stare al Mondo.
Inizio dalla fine
Per raccontare delle mie parole in libertà con Gianluca Santilli, inizio dalla fine della nostra conversazione.
Dopo aver dialogato su temi vasti, è tempo di affrontare il tornante a gomito. In discesa o in salita, scegliete il più difficile e fate voi. Lo so che c’è qualcosa che ancora non mi ha detto.
La mia domanda ha il fare innocuo, ma non lo è affatto.
Gli chiedo se c’è un’emozione di cui mi vuole dire, qualcosa che più di altre lo ha segnato. Punto l’uomo e l’uomo mi risponde.
Le parole vanno da sole. Questa volta, però, gli brillano anche gli occhi.
“Venivo da via del Corso, taglio piazza Venezia e prendo via dei Fori Imperiali. Ero con un amico. Davanti a noi Roma albeggia e colora il Colosseo. Abbasso gli occhi. Via dei Fori Imperiali è un tappeto umano. Una miriade di persone. Migliaia di ciclisti, tutti con la stessa maglia, ognuno venuto da chissà dove. Erano lì perché, in qualche modo, li avevo portati io. Erano tutti in attesa della partenza della Gran Fondo Campagnolo, la mia creatura. Il mio amico allora mi guarda e mi dice di fermarmi un attimo”.
Già così la scena sembra di vederla anche a me.
“Levati gli occhiali, mi dice. Li tolgo pensando chissà cosa mai dovessi fare. Lui mi guarda ancora e mi chiede come faccio a non emozionarmi dinanzi a tutto questo. Ho rimesso subito gli occhiali”.
Non li aveva, ma se li avesse avuti a portata di mano, avrebbe messo gli occhiali anche davanti a me.
Una creatura
Per Gianluca Santilli la Gran Fondo Campagnolo di Roma è stata un’avventura e una creatura.
Quando tutti gli dicevano che non sarebbe riuscito a farla, lui scrollava le spalle e andava avanti inseguendo quello che in mente sua era già fatto. Non facile, come non è mai facile organizzare un grande evento a Roma. Non facile fare qualcosa mai fatto prima, ma nessuno ha mai detto che le cose non facili siano anche impossibili.
Dal 2012 al 2018 la Gran Fondo Campagnolo ha snodato decine di migliaia di ciclisti tra Colosseo, Castelli Romani e ritorno. Li ha fatti entrare nella bellezza, li ha fatti pedalare godendo di un paesaggio unico al mondo, da molti già visto probabilmente, ma vuoi mettere goderne con la lentezza di un tempo dilatato?
Sette edizioni di Gran Fondo, poi Gianluca lascia.
Sette che forse è una coincidenza, ma nel mistero dei numeri il sette più che un numero è un codice esoterico. Vallo a sapere perché siano sette le note, sette i colori dell’arcobaleno, sette i chakra, sette i giorni della settimana, settimo il giorno di riposo dalla Creazione, settanta volte sette il perdono infinito di Gesù, sette i colli sacri di Roma, sette i suoi Re e altre cose ancora che chi vuole potrà trovare.
Oggi per Gianluca, oltre al coacervo di emozioni che gli albergano dentro, la Gran Fondo è le sette maglie incorniciate nel suo studio. Maglie che sembrano fare eco alle altre pietre miliari della sua vita sportiva, decine di coppe esposte in ordine non meticoloso e sulle quali sorvola con eleganza.
Passato e futuro
La nostra conversazione ha un testimone. Anzi, una testimone. Silente, ma di quel silenzio che avverti come una presenza, lei è alle mie spalle. È una bicicletta. Una Peugeot dei primi anni ‘20, una di quelle biciclette che vedi solo nelle foto sopravvissute alla dispersione degli anni.
“Vedi” mi dice “se ci pensi bene, il meccanismo essenziale della bicicletta è lo stesso da sempre. Certo, la tecnica l’ha migliorata. I materiali compositi l’hanno alleggerita, ma la sua quintessenza non è mai cambiata. Almeno fino ad ora. Due ruote e due gambe. Insieme possono fare la differenza”
L’anima quindi, dico io. Qual è l’anima della bicicletta, gli chiedo e lui non ci pensa su neanche un attimo.
“La bellezza” mi risponde mentre il suo sguardo scarta di lato, mi supera e si ferma su di lei. La Peugeot degli anni ’20. Anima e bellezza. Archetipi che superano il tempo e diventano significato. È tutto lì.
“Ma adesso siamo sulla soglia di un futuro che preme. Un futuro che intravediamo, che possiamo anche percepire come incombente, ma la vita, così come il tempo, sono trasformazione continua. La bicicletta oggi realizza una nuova sintesi tra uomo e macchina. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la bicicletta è un meccanismo di moto perpetuo: rimane in equilibrio quando è in movimento. In sé è una sintesi perfetta delle leggi universali della fisica. Associata da sempre alla fatica delle gambe che devono spingerla, oggi la pedalata assistita riposiziona la bicicletta rispetto al quotidiano, ne fa praticare un uso nuovo e più esteso. La rende competitiva nel complesso scenario della mobilità urbana, ma al tempo stesso offre immense possibilità al cicloturismo. La fruizione lenta dei borghi, dei paesaggi, della natura, è un valore culturale, una filosofia, ma anche un volano economico con numeri di portata straordinaria”
Numeri, esatto
Sottovalutati e a lungo non considerati, i numeri della bikeconomy sono quelli di un ecosistema che produce un valore aggregato stimato intorno ai 500 miliardi di euro. Numeri poderosi che Gianluca Santilli ha messo in fila per primo e ai quali ha dedicato il libro Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala, scritto insieme al giornalista Pierangelo Soldavini. Libro che maneggia ed espone i numeri con il pregio di trattarli come pietre miliari, di inquadrarli come indicatori di un modello culturale non rinunciabile, quello dell’equilibrio e della sostenibilità. Un modello alla cui divulgazione Gianluca Santilli si dedica come presidente dell’Osservatorio Bikeconomy e anche nella più recente veste di coordinatore della Commissione per il Cicloturismo istituita presso il Ministero del Turismo.
Il valore delle mani
I numeri sono un valore tangibile, misurabile. Poi c’è altro, perché il valore non trova sempre sintesi diretta in un numero.
Ci sono le mani.
Straordinarie le mani. La memoria tattile ci consente di riconoscere oggetti, materiali, forme e finanche persone.
Le mani di una persona raccontano tutto: vita, lavoro, sacrifici, età. Alle mani affidiamo confidenze e affetti. Le mani creano, trasformano e compiono l’Opera. Proprio come Carlo Collodi fa fare a mastro Geppetto, che non è un falegname, ma un demiurgo e chi pensa che Pinocchio sia un romanzo per bambini fa ancora in tempo a cambiare idea.
La bicicletta è fatta da mani. Intorno alla bicicletta c’è un mondo straordinario di artigiani, custodi preziosi del saper fare, manipolatori di forme e materiali, inventori di meccanismi, creatori di equilibri, artefici di bellezza e di emozioni. Anche loro un patrimonio culturale da promuovere, divulgare e valorizzare.
Gianluca mi porta l’esempio di Dario Pegoretti, telaista che sarebbe più corretto chiamare artista della bicicletta, andato via troppo presto, nel 2018. Mi parla delle sue creazioni ambite in tutto il mondo, quasi sconosciute in Italia. Maledetto vizio nostrano quello di non raccontare quello che siamo e quello che facciamo spesso in maniera unica.
Il valore delle mani dei nostri artigiani produce valore, numeri certo, ma anche valore ancora più alto. Esempio, bellezza, maestria, valori uncountables tanto sono preziosi.
La mia bici
Seguendo le sue suggestioni, Gianluca Santilli ha raccontato in un bel video la sua passione per la bicicletta e il suo essersi affidato a mani sapienti per averne una unica. Una bicicletta che già all’origine fosse il prodotto esponenziale delle emozioni di tutti coloro che ci avevano messo mano.
Una bicicletta che non solo fosse sua, ma che fosse lui.
L’anima, lo abbiamo detto prima. L’anima è bellezza. In questo caso è anche la bellezza di un racconto.
Nei pochi minuti di visione de La mia bici si viene portati quasi per mano in un mondo misterioso ai più.
Il mondo della trasformazione, dei metalli che prendono forma e vita, del sapere nascosto, dei meccanismi complicati, della saldatura che tanto ricorda la metallurgia magica cantata dall’epica classica e dalle saghe norrene. Il segreto dell’acciaio di cui John Milius fa dire dal padre al Conan bambino in apertura del film tratto dal racconto di Robert E. Howard.
Ma queste sono divagazioni personali.
Una ruota che gira
Della bicicletta come metafora abbiamo detto. E allora come non andare a pescare nella saggezza popolare che spesso altro non è che conoscenza perduta.
Noi boomer lo abbiamo sentito dire spesso. Oggi non si usa quasi più dirlo, ma l’adagio che sostiene essere la vita una ruota che gira non è una banalità. È l’urobòro, è il cerchio che ruota intorno all’asse del mondo, è Platone, è Nietzsche, è il girotondo che nella semplicità del gioco replica le regole dell’Universo, è fisica quantistica.
Quello che ci è dato sapere, però, è che se la ruota che gira è quella di una bicicletta, la vita può essere migliore.
Per tutti.
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