Mi hanno detto che mi cercavi
Sì, da un po’, ma non è stato facile. Tu sei dall’altra parte, anche se sei Paul Newman e qualche favore te lo concedono, la procedura per farti avere il permesso di parlare con me è stata lunga e per nulla scontata.
Lo so, qualcuno aveva già provato e non era riuscito. Con quell’altro però hai parlato già parecchio tempo fa.
Chi intendi?
Mi prendi in giro? Guarda che ci metto un attimo a chiudere qui e a tornare indietro.
Va bene, va bene. Ho capito, intendi Steve McQueen. Non volevo entrare nell’argomento, tutto qui.
Tu fai l’intervista, ma ricordati che sono io a decidere di cosa parlare.
Vuoi parlare di McQueen? Lo trovi così interessante?
Non troppo e non siamo stati neanche particolarmente amici. Abbiamo recitato insieme. Recitato, appunto. Lui soffriva sempre un po’ la mia presenza e anche il confronto. Faceva storie sul minutaggio e persino sulla posizione e la grandezza dei nomi sui manifesti. In pista facevamo corse diverse, ma in qualche modo nella mia storia di motori ha un posto anche lui.
Va bene, ma tu sei Paul Newman, hai avuto una vita straordinaria e tra pochi giorni avrai cento anni. Io è di te che voglio parlare.
Cento anni il 26 gennaio. Da voi cento anni sembrano tanti, ma dove sono io nessuno fa più caso alle date. Di cosa vorresti parlare con me?
Vorrei parlare della tua passione.
(Mi guarda, ci pensa un momento e poi ride di cuore. Ride con gli occhi Paul, con quegli occhi che non sono mai cambiati).
Pensi forse che ne abbia avuta una sola?
No, no, per carità, anzi scusa se pensi che ti abbia sottovalutato.
(non smette di ridere). Tralasciando il resto, io vorrei parlare della tua vita di corse. Ti dico di più. Io voglio parlare di quel giorno a Lime Rock Park, il 29 settembre 2007. Voglio parlare della tua ultima corsa.
È una storia lunga. Io ho tempo. Tu?
Anche io.
Vedi, io sono stato un bambino fortunato. Sono nato in un posto tranquillo, vicino Cleveland in Ohio, in una famiglia senza alcun problema economico. Nel 1925 non era una cosa scontata. Mio padre, Arthur, era un commerciante, non ho avuto un grande rapporto con lui. In effetti non l’ho avuto neanche con mia madre, Theresa, ma non si può avere tutto. Sono cresciuto tutto sommato bene, sono passato indenne attraverso una guerra, ma qualche problema di diffidenza verso il mondo ce l’ho avuto.
La guerra, già. Ho letto che volevi fare il pilota, ma non ci sei riuscito.
Daltonico, così mi dissero. Mi proposero però di volare ugualmente, addetto radio e mitragliere. Accettai, mi addestrarono e mi mandarono nel Pacifico. Sono stato fortunato ancora una volta, sono qui a parlarne.
Il 6 agosto eravamo in volo, un pattugliamento limitato, nessun obiettivo specifico. Ci avevano solo detto di rimanere in circuito nel perimetro assegnato. Routine, così pensavamo tutti. Così abbiamo pensato fino a poco dopo le 8,00 quando la linea dell’orizzonte davanti a noi viene prima spezzata da un bagliore e poi segnata da una specie di fungo che si alzava alto. Dopo pochi minuti arrivò l’ordine di rientrare. Abbiamo saputo dopo quello che era successo, abbiamo saputo dopo cosa era stata Hiroshima. Non ho più dimenticato, sai. Finita la guerra, lasciata l’aviazione, dovevo prendere in mano la mia vita. Avevo capito che lasciarla andare, sprecarla, sarebbe stato come dare un calcio alla fortuna che mi aveva fatto tornare a casa.
Cosa hai fatto?
Sono diventato vorace di vita. Ho preso consapevolezza che potevo avere chi volevo. Donne intendo. Nonostante il mio carattere non proprio affabile, potevo conquistarle anche senza fare nulla. Ne ho approfittato molto e mi è piaciuto. L’Actors Studio è stato una tappa importante, mi ha fatto capire che non solo potevo avere chi volevo, ma potevo anche essere chi volevo. Recitare è stato terapeutico per limare un po’ il mio carattere, mi ha realizzato, mi ha fatto conoscere Joanne che ho sposato dopo qualche anno e amato come mai nessun’altra. Nonostante tutto. Nonostante le distrazioni o i tradimenti, una passione travolgente, una storia infinita. Quello che mi faceva veramente stare bene, però, l’ho capito tardi. Avevo quasi 44 anni.
Come?
Nel 1969 sono in un film di poco successo, “Winning”, da voi uscito come “Indianapolis pista infernale”. Devo dire che questa vostra mania di tradurre i titoli dei film non mi è mai piaciuta molto, ma tant’è. Sono un pilota con una vita sentimentale problematica. Per entrare nel personaggio prendo lezioni di guida alla Bob Bondurant Racing School. Personaggio straordinario Bob, pilota vero che dopo un brutto incidente sul circuito di Watkins Glen aveva deciso di insegnare agli altri la guida veloce, quella delle corse. Io e Richard Wagner – anche lui sul set con me – siamo stati tra i suoi primissimi allievi. Montavamo su Datsun 240Z e su Porsche 911 e 918.Non ero contento di girare il film, ero contento di girare in pista. Mi si è aperto un mondo e ho trovato me stesso come mai prima. Ci sono arrivato tardi, ma non sono più sceso dalle macchine e non ho mai smesso di correre.
Hai avuto una doppia vita, quindi?
Doppia? Solo doppia? (ride, ride ancora). Un attore ha tutte le vite che vuole. Io non so quante vite ho avuto, posso però dirti che se ne ho avuta una vera, è stata sicuramente quella che ha girato con lo stesso rumore dei motori.
A casa erano contenti? Correre è comunque un rischio.
Rischio dici? Il rischio vero è vivere una vita senza inseguire le proprie passioni. In questo Joanne mi è stata vicina. Ha capito subito che non avrei mai rinunciato a correre. Quando andavo nei circuiti portavo la famiglia, lei e le bambine, in camper. Ogni volta era una festa, un divertimento per tutti. Poi, certo, c’è anche la paura, ma devi farla diventare una confidente, le devi parlare, devi imparare a fidartene, ad ascoltarla. Lei fa parte del gioco, non è contro il gioco. La accetti e vai avanti. Joanne ha fatto però qualcosa in più.
Cosa ha fatto?
Sai che a parlarne mi commuovo ancora? Era il 2006, la mia vita di corse l’avevo fatta. Avevo 81 anni, lei 76. Mi ha regalato un orologio, un Rolex Daytona in oro bianco. Sul fondello aveva fatto incidere “Drive Very Slowly” firmato Joanne. Guida molto piano mi diceva. Sai cosa significava? (adesso Paul guarda in basso, ha perso il sorriso. Cerca le parole. Nasconde qualcosa per pudore, ma io lo so che ha gli occhi lucidi). Significava vai via lentamente. Vai via lentamente. Joanne lo so che puoi sentirmi. Non ho deciso io, amore mio. Non ho deciso io.
Ti vuoi fermare per un po’?
No, no, non ti preoccupare. Sono solo vecchio e lo sai che i vecchi si commuovono facile. Joanne ha un suo mondo ora. Alzheimer. Io lo so che anche in quel mondo lei continua ad amarmi. Io aspetto, non ho fretta.
Torniamo alle corse?
Sì, dai. Torniamo alle corse. Finito il film avevo un’immagine da pilota, ma ora lo dovevo anche diventare. Perfeziono la tecnica di guida e inizio a partecipare a gare vere. Un attore finge per definizione. Un pilota mai. Gli anni settanta sono un turbinio di corse, trascuro un po’ la recitazione e corro. Lotus Elan, Triumph TR6 le mie macchine. Corro e mi prendo anche qualche bella soddisfazione. Chiudo il decennio con tre tappe importanti. Nel ’77 esordisco a Daytona su una Ferrari 365, gran bella macchina. Poi c’è Bill Freeman. Entusiasta dei motori, Bill aveva iniziato a correre nel ’61 su Go Kart per poi passare alle GT e ai circuiti Trans-Am e Can-Am, nel ’77 è campione nazionale SCCA su Porsche 911. Con lui nel ‘78 fondo il “Newman Freeman Racing Team”, diventiamo scuderia, dura pochi anni, ma faremo belle cose. Il ’79, invece, per me è l’anno dell’apoteosi.
Il ’79 è l’anno di Le Mans
Il Circuito de la Sarthe. Bellezza assoluta! Ero in equipaggio con Rolf Stommelen e Dick Barbour. Manici veri. Rolf con esperienze in Formula 1, ruote coperte e cronoscalate. Dick grande esperienza nelle corse endurance. Montiamo una Porsche 935/77, macchina fantastica, mostro di potenza e tenuta. Ce la giochiamo fino in fondo. Siamo primi di categoria e secondi assoluti. Avremmo potuto anche vincere se quel mezzo mago matto di Mafred Kremer non avesse messo lo zampino nel rimediare in maniera rocambolesca alla rottura della cinghia di trasmissione della Porsche 935/K3 della sua scuderia. Fu lui che permise al suo equipaggio – i fratelli Whittington e Klaus Ludwig – di riprendere la corsa. Se non si fosse inventato quell’accrocco, saremmo stati primi anche in classifica assoluta.
Dai, non ti puoi lamentare. Soprattutto per come poi sono andate avanti le cose.
Non mi lamento. Gli anni ’80 sono andati alla grande. Vinco su circuiti Trans-Am, a Brainerd nell’82 e a Lime Rock nell’86. Nell’83, insieme a Carl Haas, fondo il “Newman Haas Racing Team”. Corriamo in Indy Car Series e soprattutto in Champ Car dove, tra l’83 e il 2007, vinciamo 8 titoli. Con noi ci sono piloti come Nigel Mansell, Mario Andretti e Sebastién Bourdais, gente che ha lasciato la firma nel mondo delle corse.
Nel frattempo fai anche l’attore comunque
Beh, dovevo pur lavorare per vivere (e giù a ridere ancora). Nell’86 mi danno l’Oscar alla Carriera, l’anno dopo quello come miglior attore per Il Colore dei Soldi di Scorsese. Credo di essere stato l’unico a invertire i fattori. Però ti vorrei segnalare il 1995.
Ho capito, lasciamo perdere i film, andiamo a Daytona.
Bravo, hai capito dove voglio andare a parare. Nel 1995 siamo io, Tommy Kendall, Mark Martin e Mike Brockman. Montiamo una muscolare Mustang con i colori del Rousch Racing Team. Tommy è un giovanotto, Mark e Mike uomini fatti, io giovane dentro con i miei 70 anni. Siamo terzi assoluti. Festa grande, inno alla vita. A Daytona correrò ancora nel 2000, nel 2004 e nel 2005, a 80 anni suonati.
Lo sai che ci stai girando intorno, vero?
A cosa?
A quello che ti avevo chiesto all’inizio. Alla tua ultima corsa.
Lime Rock Park è stato un destino per me. Ti ho detto che dopo aver interpretato un pilota dovevo anche diventarlo. Il circuito di Lime Rock Park era a poco più di un’ora di macchina dalla mia casa di Westport. Ho iniziato a ritagliarmi del tempo e ad andarci una volta settimana per girare con la mia Datsun 510, di solito il martedì. Poi ho iniziato a non poterne fare più a meno. Quello che succede dopo te l’ho in gran parte raccontato.
Il 16 agosto 1986 a Lime Rock mi prendo la seconda e anche ultima vittoria in Trans-Am. La mia Nissan 300ZX turbo bianca rossa e blu brucia i 66 giri a una media di 146,529 km/h e mangia il traguardo 33 decimi prima della Buick Somerset di Elliot-Forbes Robinson.
Il 29 settembre 2007 è qui che vinco la mia ultima gara su una Corvette da 900 cavalli. 82 il numero sulla livrea, 82 i miei anni.
Ho vinto, ma stavo già perdendo.
Il 13 agosto dell’anno dopo torno a Lime Park. Il circuito è aperto solo per me, per noi, la mia famiglia, i miei amici. Faccio un po’ fatica a entrare nella Corvette e faccio un po’ fatica a uscirne. Faccio dei giri mentre gli altri guardano. In macchina ci siamo io e la mia vita. Ho fatto dei giri, ma forse è più corretto dire che ho “chiamato i giri,” proprio come si fa al tavolo di poker quando la partita deve finire. Lo sapevo io, lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche l’ospite che mi portavo dentro. Non ho rimpianti, non ho rimorsi. Mi è andata bene.
Qui, dall’altra parte, dove adesso sto per tornare, ho incontrato tanti amici, alcuni vecchi e altri nuovi. Aspetto lei, non ho fretta, ma l’aspetto.
Prima di andare dammi ancora qualche minuto, tanto hai detto che per voi il tempo è diverso, non te ne accorgerai neanche.
Nel 1956 Robert Wise ti dirige in “Lassù qualcuno mi ama”. Tu sei Thomas Rocco Barbella, per tutti Rocky Graziano, sangue abruzzese e siciliano, nato e cresciuto nell’east side di New York, pugni di strada prima di quelli del ring, asfalto, canottiere sudate coltelli e furti prima della cintura di campione del mondo dei medi. Come tanti, un rapporto difficile con il padre.
In una scena tu, Rocky, discuti con tuo padre, gli dici di tutto. Lui prova a colpirti, ma tu gli blocchi il braccio. Lui è un pugile fallito, tu un campione, lui ha una vita derelitta, tu sei futuro da aggredire. Quando lo blocchi lui si accascia su una sedia. Piange e a te si apre il cuore. Ti vergogni di te, di quello che hai detto, fatto e pensato. Ti inginocchi, cerchi di recuperare e poi gli dici “Dimme che posso fa pe te. Famme fa na cosa pe te…”. Lui ti guarda, abbassa gli occhi e poi ti dice “Diventa campione, comme vuleva io”.
Gli metti la mano sulla spalla, lui prende la tua. Non vi guardate negli occhi, ognuno di voi ha qualcosa da farsi perdonare. Vai via stringendo il pugno mentre gli dici “Di questo non t’hai a preoccupa’ proprio”.
Anche tu hai avuto un rapporto difficile con tuo padre. Cosa c’è di tuo in quella scena?
Colpisci basso tu, eh
Ma no dai, se vuoi puoi non rispondere.
Sai, gli attori recitano. Qualche volta fingono, qualche volta ci credono, altre volte pregano. Il film è del 1956. Mio padre è morto nel 1950.
Thomas Rocco Barbella, Rocky, mi ha fatto fare pace con lui. Lo ringrazio, l’ho ringraziato.
Vuoi dirmi altro?
Lo sai che saranno in tanti a non credere che ti ho detto queste cose?
Non fa niente Paul, non fa niente, non ti preoccupare di quello che mi diranno. Ora vai, il pit stop è finito. La corsa ricomincia.
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L’ultima corsa di Paul Newman inizia la mattina del 26 settembre 2008 nella sua casa di Newport, poco più di un mese dopo aver chiamato i giri in Corvette a Lime Park.
Attore di una generazione di divi, Paul ha avuto una vita intensa, movimentata, veloce e piena.
Nel 1995, a riconoscimento delle attività di beneficienza che lo hanno visto sempre impegnato in prima persona, l’Academy gli ha assegnato il Jean Hersholt Humanitarian Award.
Joanne Woodward ha sposato Paul nel 1958, lo stesso anno in cui le viene assegnato l’Oscar come miglior attrice per “La donna dai tre volti” di Nunnally Johnson. Insieme hanno avuto tre figlie e condiviso una vita di amore, passione, alti, bassi, fughe e ritorni. E corse, ovviamente. Oggi Joanne ha quasi 95 anni e vive nella casa di Westport, nel mondo che l’Alzheimer le ha costruito intorno.
Paul e Joanne si attendono da 17 anni.
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