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Ronnie Peterson. Il dio veloce del silenzio

Ronnie non amava le parole, non rilasciava volentieri interviste, non parlava mai oltre misura. Ronnie era un ragazzo per bene, aveva un grande amore e rispettava le regole, anche quando queste gli imponevano di non vincere. Eppure lui era il più veloce di tutti. In pista e nella vita.
Ronnie Peterson

È un linguaggio misterioso il silenzio, arriva al cuore più velocemente di quanto possano le parole. Il silenzio è il linguaggio degli dei muti davanti alle parole degli uomini, ma anche di uomini sopra le righe per nulla intimoriti dal praticarlo al pari degli dei.
Ronnie Peterson non aveva il fisico di uno di quegli dei  cantati nell’Edda di Snorri Sturluson, eppure aveva scelto il silenzio come sua lingua elettiva. Lingua veloce, proprio come lui. Sì, perché Ronnie Peterson, pur non avendo neanche il fisico da pilota e meno che mai praticandone la vita da copertina, aveva la velocità nel sangue. Ronnie era veloce come il silenzio che arriva al cuore.

Almby, vicinanze di Örebro, Svezia meridionale

Un fiume, un lago, poche anime e una panetteria di famiglia. Nel giorno di San Valentino del 1944 è qui che nasce Ronnie Peterson. Bengt, il padre, sforna pane, ma da sempre coltiva anche una passione e questa, forse, lo aiuta a chiarirsi le idee. Bengt è un ingegnere mancato, un autodidatta che lavora su motori e telai dei go-kart, pare abbia avuto anche un piccolo passato come pilota di Formula 3. L’idea che Bengt ha ben chiara è che dopo di lui nessuno in famiglia farà più pane.
La trama degli dei ha fatto nascere Ronnie nel posto giusto. Forse.

ronnie peterson

In ogni caso la passione è contagiosa

Ronnie ha un carattere particolare, non parla molto, non ha grande voglia di studiare, ma quando il padre lo mette per la prima volta su un go-kart capisce di aver trovato sé stesso e non scende più. Smette di andare a scuola, inizia a lavorare come tecnico ascensorista e appena può scende in pista e corre. Lo fa con ogni tempo, sviluppa un suo stile di guida, impara a spingere l’acceleratore più che a frenare, maneggia il volante nel controsterzo stupendo tutti. Lo fa, inizia a vincere le prime gare e dal 1964 al 1967 è per quattro anni il campione nazionale di categoria. La velocità è la sua via. Sarà una via senza uscita.

Il successo è una Formula

Ronnie ha manico e coraggio, il passaggio dai go-kart alle competizioni di Formula 3 è scontato. L’esordio è fulminante: campione nazionale nel 1968 e ancora una volta nel 1969. Le macchine? Nulla di particolare; la prima assemblata dal padre, poi una Brabham e infine una Tecno, creatura degli italiani Luciano e Gianfranco Pederzani motorizzata Ford. Con la Tecno il 17 maggio 1969, dopo una gara mozzafiato che lo vede duellare soprattutto con il connazionale Reine Wisell, vince anche il Gran Premio di Monaco. Soprattutto, a fine stagione conquista il titolo di campione europeo di Formula 3, inevitabile quindi che la Formula 1 si accorgesse di lui. Ronnie Peterson il silenzioso che non amava rilasciare interviste è ormai un personaggio e qualcosa in questo ragazzone, che non ha nulla del divo e che sconta un’aria anche un po’ impacciata, inizia a cambiare.

 

Ronnie e Barbro Peterson

Barbro

È proprio nel 1969 che la vita di Ronnie prende una piega diversa. È diventato un personaggio, lo abbiamo detto, ma accade anche altro. Questo altro accade al Prisma Night Club di Örebro, che forse non sarà stato glamour come l’Annabel’s di Londra, ma gli dei giocano a piacere con i fili degli uomini e li muovono dove vogliono. Quella sera al Prisma Ronnie, campione di automobilismo per vocazione e tecnico ascensorista per mestiere, sembrava annoiarsi. Poi vede lei.  È bella, la più bella di tutte. Ci vuole coraggio per andare veloci in pista, ma qui, su questa pista, il coraggio è di un altro tipo. Ci pensa un po’ e poi le si avvicina e iniziano a parlarsi. Forse deve aver pensato che mai le parole gli erano uscite così facilmente.
Lei si chiama Barbro e fa la segretaria, lui è Ronnie e fa il pilota. Non si lasceranno più.

Formula 1

Barbro e Ronnie vanno a vivere insieme e si trasferiscono a Maidenhead, paesone del Berkshire, Inghilterra. Il 1970 segna il suo debutto in Formula 1, corre su March, non proprio una gran macchina; nove gare, tre ritiri e zero punti dicono tutto. La stagione segna anche il debutto di Barbro, che lo segue sempre ai box, e dell’orsetto portafortuna che invece Ronnie sistema in macchina con lui.
Nel 1971 le cose vanno meglio, enormemente meglio. Ronnie spinge forte e alle mancanze della macchina supplisce con una guida che stupisce tutti: si piazza secondo dietro un mostro sacro come Jackie Stewart che, però, guida una Tyrrel. Tra i tanti vale la pena ricordare l’episodio di Monza. Al rettilineo finale si affacciano in cinque, Ronnie spinge con tutto quello che ha e taglia il traguardo pensando di aver vinto. Non è così. Nel 1971 a Monza vince una meteora che si chiama Peter Gethin, non vincerà mai più nulla e quel giorno vince per un impietoso centesimo di secondo registrato al fotofinish. Un centesimo di secondo che significa pochi centimetri.  Nel 1971 a Ronnie rimane la consolazione di vincere il titolo della Formula 2. Non è poco, ma lui vuole altro.
Il 1972 è una delusione, la March proprio non va e il suo talento questa volta non basta; chiuderà con un solo podio, il terzo posto al Gran Premio di Germania, e sarà nono in classifica generale. Le soddisfazioni gli vengono invece dal Campionato Sport dove corre per Ferrari e si aggiudica il Nürburgring e la 1000 chilometri di Buenos Aires.

 

Peterson Lotus

Un destino di nome Lotus

Nel 1973 si cambia passo. Il rosso nel Circus della Formula 1 è sfolgorante, ma la Lotus vestita di nero e di oro nella livrea John Player Special è di un fascino pazzesco. Lotus significa Colin Chapman, eclettico, geniale, visionario, dieci anni dopo ucciso da un sogno che si chiamerà DeLorean, il sogno di “Doc” Brown e di Marty McFly e che manca ancora a tanti di noi. Ronnie con la Lotus ha finalmente una gran macchina, vince tanti Gran Premi, ma non agguanta il titolo; terzo nel 1973, quando tra l’altro vince due volte a Monza, e quinto nel 1974. Il 1975 è invece un anno nero, la Lotus proprio non va e Ronnie è confinato al dodicesimo posto.
La vita però si prende la rivincita; nel 1975 nasce Nina, la figlia che non vedrà crescere.

Il podio del 1976

Vincere su macchine forti può non essere scontato, ma vincere su macchine pessime è una rivalsa sul destino. Nel 1976 è questo che accade. Ronnie ha lasciato la Lotus ed è tornato alla March e si guadagna ancora una volta una stagione senza storia; sedici gare, dieci ritiri, dieci punti totali, undicesimo in classifica piloti. C’è un podio però e che podio. Contro ogni pronostico e con una macchina improbabile, il 12 settembre Ronnie Peterson fa il miracolo e vince a Monza. Applausi a scena aperta, anche dai ferraristi di casa. A fine stagione, la scena però cambia ancora

La parentesi Tyrrel

La Formula 1 è tante cose: uomini, macchine, coraggio, fortuna, sogni. Ken Tyrrel ha una genialità che lo porta più avanti del tempo, anche troppo. Una guerra alle spalle, già pilota di qualche successo, nel 1959 fonda la sua scuderia che impegna nella Formula Junior, scopre un talento come Jackie Stewart con il quale nel 1968 approda in Formula 1 andando a vincere il titolo nel 1969, nel 1971 e nel 1973. Telai Matra all’inizio, ma già dal 1970 telai suoi. Ronnie Peterson arriva in Tyrrel nel 1977 e gli tocca una macchina talmente avanti da essere bizzarra. Avanti per l’integrazione con l’elettronica, una novità per il tempo. Bizzarra per quel treno a sei ruote, quattro piccole davanti e due grandi dietro. Risultati? Diciassette gare, nove ritiri, un terzo posto in Belgio, sette punti totali, quattordicesimo in classifica piloti. Dopo averci vinto per tre volte, il sesto posto di Monza è solo un numero da dimenticare.

1978. Il destino che ritorna

La Lotus non naviga in buone acque, ma Colin Chapman guarda avanti. Qualche volta torna anche sui suoi passi. In questo caso torna su Ronnie Peterson che non ha mai smesso di piacergli. Lui lo sa che se Ronnie non ha ancora vinto il mondiale è solo per un caso disgraziato. Il fatto è che lo richiama proprio per questo motivo, proprio per non farglielo vincere il mondiale. Il suo asso nella manica per rilanciare la Lotus si chiama Mario Andretti, il predestinato è lui. Ronnie può aiutare, può essere un gregario di lusso e può far guadagnare punti per la classifica costruttori. Mette tutto nero su bianco. Le regole sono quelle. La pista, però, è anche altro. Il fatto è che Ronnie è sempre un bravo ragazzo e lui alle regole ci crede. Ci crede e vince solo in Sud Africa e in Austria dove Andretti è costretto a ritirarsi. Ci crede talmente tanto che in altre occasioni affianca Andretti e invece di superarlo per arrivare primo, rimane lì e si va a prendere il secondo posto. Chapman inizia a non fidarsi, ma lui se ne frega.
È un bravo ragazzo Ronnie. Ai box c’è Barbro che prende i tempi, a casa c’è Nina che aspetta, in macchina c’è l’orsetto che forse più di tutti conosce i suoi pensieri. Sì, è un bravo ragazzo Ronnie.

Poi c’è Monza

Monza non si annuncia bene, le prove non vanno come dovrebbero.  A Monza la Lotus arriva con tre macchine ufficiali, ma solo una è a disposizione di Ronnie ed è proprio questa a creare problemi. In prova rompe il motore e inanella una serie di problemi allo sterzo e ai freni; l’unica soluzione è cambiare macchina. Domenica 10 settembre Ronnie è sulla griglia di partenza con la Lotus 78 di riserva, molto meno competitiva della 79, qualcuno dice anche che con quei serbatoi laterali al pilota sia molto meno sicura.
Monza non si annuncia bene, no. Diversamente dalle altre volte Ronnie è solo. Barbro questa volta non l’ha seguito, al box non c’è lei a prendere i tempi. Non è tutto. Ronnie è solo anche in macchina; ha dimenticato l’orsetto portafortuna.
La trama degli dei non tesse mai fili a caso.

Verde e via

Semaforo verde, Andretti è primo e scatta avanti, Ronnie Peterson è in sesta posizione, ma in quel momento è tutto il mondo, il suo mondo, che scatta in avanti.  È già successo altre volte e succede anche oggi: il verde scatta quando gli ultimi non hanno ancora completato il giro di ricognizione, ma è solo un dettaglio di cronaca. Succede altro. 300 metri per una Formula 1 in partenza sono un battito di ciglia. 300 metri sono quelli che separano Ronnie e gli altri dall’ingresso della chicane, o meglio, quelli che li separano dall’inferno. È lì che accade tutto. Ancora si discute di chi sia stata la colpa, ma da quel 10 settembre sono passati 46 anni, non ha più senso farlo. Colpe o non colpe di uno o dell’altro, l’unica cosa certa è che la Lotus di Ronnie si schianta sul guardrail, rimbalza in pista e infiamma cielo e asfalto. Una decina le macchine coinvolte nell’incidente. James Hunt salta fuori dalla sua McLaren e corre verso Ronnie, i pompieri svuotano gli estintori, ma sarà lui a tirarlo fuori dall’abitacolo e a sdraiarlo lontano dal fuoco insieme a Clay Regazzoni.  Nel frattempo Vittorio Brambilla è colpito in testa da uno pneumatico staccatosi da chissà quale macchina, ma è anche baciato dalla fortuna; vivrà uscendo dal coma dopo qualche giorno.

Peterson Monza 1978

300 metri dopo

Ronnie è cosciente, ma le gambe sono a pezzi. Una fortuna, dicono. Non si muore per le gambe a pezzi. Non si muore neanche per le ustioni alle mani, appena un po’ riparate dai guanti. L’ambulanza arriva con un ritardo inspiegabile, quasi venti minuti, e poi corre al Niguarda. A Monza si sistema la pista e poi si riparte. La Lotus non si ritira e corre ancora. Andretti vincerà la gara, anche se solo virtualmente vista una penalizzazione che gli toglie i punti. In ogni caso sia lui che la Lotus vincerà il Mondiale, per lui sarà il primo e ultimo, per la Lotus solo l’ultimo.
Al Niguarda, quel pomeriggio, quando Ronnie entra in sala operatoria non c’è nessuno.
Non c’è nessuno neanche quando esce dopo sette ore. L’intervento è lungo, ma di routine. Almeno così dovrebbe essere.

Più veloce di tutti

Accade prima dell’alba. Un embolo manda tutto in fuorigioco. È tutto veloce, è tutto silenzio. Come lui, come la sua vita.
Alle sette di mattina Ronnie non lo raggiunge più nessuno. È così che va via Ronnie, in fuga silenziosa e solitaria, proprio come ti aspetti debba fare un dio veloce e silenzioso.
Il 16 settembre, al funerale nella sua Örebro Ronnie Peterson è sulle spalle di John Watson, Emerson Fittipaldi, Jody Scheckter, James Hunt, Niki Lauda e Gunnar Nilsson. Gunnar è irriconoscibile, ha il cancro, morirà dopo un mese.

Ronnie e Barbro Peterson

Non è tutto, però

C’è Barbro. Lei ci proverà ad andare avanti. Ci proverà insieme a John Watson, uno dei migliori amici di Ronnie. Passerà un po’ di tempo, ma lei, Nina e John diventano una nuova famiglia.
Il 19 dicembre 1987 John rientra in casa e non vede nessuno. Chiama e nessuno risponde. La porta del bagno è aperta.
C’è un tempo che non passa mai. Barbro non ce l’ha fatta. Barbiturici. Un salto ed è di nuovo con Ronnie, l’amore della sua vita.

Ronnie, dio veloce e silenzioso. Ronnie, ragazzo per bene.

 

Marco Panella, (Roma 1963) giornalista, direttore editoriale di Sportmemory, curatore di mostre e festival culturali, esperto di heritage communication. Ha pubblicato "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015), "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016) il thriller nero "Tutto in una notte" (Robin 2019) e la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021)

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