Era la prima volta nella storia delle Olimpiadi che una maratona non si concludeva dentro uno stadio. Ma quella incredibile serata romana del 10 settembre 1960 avrebbe consegnato alla storia uno dei più grandi atleti mai esistiti, e perciò meritava uno scenario più degno. I 42.195 metri si snodavano dalla partenza al Campidoglio fino all’arrivo al Colosseo, passando per i Fori Imperiali, l’Appia Antica e coinvolgendo perfino un tratto di GRA, cosa oggi impensabile. La partenza era suggestivamente fissata alle 17.30, in modo che ai colori infuocati del tramonto romano man mano si sostituissero i fuochi delle torce che ardevano lungo il percorso. L’Arco di Costantino, illuminato a giorno da grandi riflettori, era già pronto ad accogliere gli atleti dell’ultima prova della XVII Olimpiade dell’era moderna. Abebe Bikila era tra di loro.
Tre atleti gareggiarono senza scarpe
Ai piedi della scalinata del Campidoglio si presentarono sessantanove concorrenti in rappresentanza di trentacinque Nazioni. Gli italiani erano tre: Francesco Perrone, Silvio De Florentiis e Vito Di Terlizzi. Con sorpresa e disappunto, il pubblico presente si accorse che ben 3 atleti erano scalzi e avrebbero gareggiato senza scarpe: l’indiano Rhago Yaimal e gli etiopi Abebe Wakgira e Abebe Bikila.
Il pettorale numero 11
Abebe Bikila indossava una canottiera verde, i pantaloncini rossi e aveva l’11 come numero di pettorale. Di lui si sapeva molto poco. Membro della guardia reale del Negus Hailé Selassié, si era qualificato per i giochi con il tempo sorprendente di 2h21’23’’, risultato straordinario perché ottenuto ai 2400 m di altitudine di Addis Abeba, ma nell’ambiente non si dava particolare credito a questo dato. Del resto, lo sconosciuto etiope aveva già 28 anni ed era solo alla sua terza maratona. I favoriti per la medaglia erano il marocchino Rhadi, l’inglese Kiley, il belga Van den Driessch e i due russi, che avevano preparato addirittura una tabella di marcia aggiustandola ai tempi del primatista del mondo, il leggendario Emil Zatopek. Ma negli occhi di Bikila si poteva leggere determinazione infinita: neppure le bellezze della città che aveva intorno riuscirono a distrarlo dal suo dorato obiettivo.
Ma perché corse scalzo?
Se lo sono chiesto in tanti, nel corso del tempo. Una delle teorie più accreditate racconta che Bikila sostituì il titolare Abebe Wakijera, che si era infortunato, ereditando le Adidas messe a disposizione dalla Federazione. Tuttavia, essendo le scarpe di qualche numero più piccole, alla fine il maratoneta decise di gareggiare a piedi nudi.
Quello che è certo è che Bikila era abituato a correre scalzo. Qualche settimana prima delle Olimpiadi, il suo allenatore, lo svedese Oni Niskanen, che tra l’altro era pure responsabile della Croce Rossa in Etiopia, gli fece correre la distanza di 32 km sia con le scarpe che senza. A piedi nudi Abebe Bikila impiegò 1h45’, circa un minuto e mezzo in meno che con le scarpe!
La sfida con Rhadi
Al chilometro 20 il gruppo si era già sfaldato. La vittoria finale, salvo imprevisti, era una questione a due tra il campione marocchino e il carneade etiope. La corsa leggera e ritmata di Bikila conquistò presto il pubblico assiepato lungo i bordi del percorso. Neppure il basolato della Città Eterna seppe creargli fastidi. Anzi, al chilometro 41 Bikila scappò via al rivale, che non lo riprese più. Il vincitore tagliò il traguardo posto sotto l’Arco di Costantino con il tempo di 2h15’16”, nuovo primato mondiale. Anziché abbattersi al suolo per la stanchezza, Bikila si esibì in alcuni esercizi di stretching, mostrando una invidiabile, incredibile freschezza.
La leggenda Bikila
E fu l’apoteosi. Adesso tutti sapevano chi fosse Abebe Bikila, il più grande maratoneta africano e, probabilmente, il migliore mai esistito. Il campione si ripeté 4 anni dopo, ai Giochi di Tokyo, facendo registrare il nuovo record del mondo: 2h12’12’’. Stavolta, però, indossando delle anonime scarpette bianche. Sorprendentemente, i pronostici della vigilia lo vedevano soccombere nei confronti dell’australiano Clarke, del britannico Heatley e del beniamino di casa Tsuburaya, semplicemente perché Bikila era stato operato di appendicite poche settimane prima.
A Messico ’68 Abebe Bikila avrebbe potuto addirittura realizzare la tripletta, ma un brutto infortunio alla gamba lo mise fuorigioco. La vittoria, per la cronaca, andò a un suo compagno di squadra: Mamo Wolde.
Una fine tragica
Nel 1969 l’eroe etiope fu coinvolto in un brutto incidente automobilistico che gli recise alcune vertebre, perdendo l’uso di quelle gambe con le quali aveva conquistato il mondo. Ma Abebe Bikila non perse lo spirito competitivo: si cimentò con il ping-pong e partecipò addirittura alla gara di tiro con l’arco ai Giochi Paralimpici di Heidelberg 1972.
Se lo portò via un’emorragia cerebrale l’anno successivo, a soli 41 anni.
Oggi, lo stadio olimpico di Addis Abeba porta il suo nome. Sulla sua tomba si legge un’epigrafe in tre lingue: amarico, italiano e giapponese.
Nell’estate del 2022 a Roma gli è stata intitolata la strada che collega via Laurentina a via Tor Pagnotta.