Stadio Ayresome Park di Middlesbrough, 19 luglio 1966. La Nazionale italiana di calcio del C.T. Edmondo Fabbri scende in campo per la terza e decisiva partita del gruppo D, valida per la qualificazione agli ottavi di finale della Coppa del Mondo che si svolge in Inghilterra. L’avversaria è la Corea del Nord, una squadra di sconosciuti semi-professionisti decisamente alla portata della compagine azzurra, che può contare su campioni affermati come Albertosi, Facchetti, Juliano, Mazzola, Rivera, Meroni…
Invece, inopinatamente, gli azzurri sono battuti di misura dal gol di Pak Doo-Ik. È la delusione più grande del nostro calcio, al punto che, da allora, per antonomasia il termine “Corea” indica, non solo in ambito sportivo, una sconfitta cocente, inattesa e senza attenuanti. Qualcosa, però, nel nostro campionato cambierà. Qualcosa non da poco.
Chi era Pak Doo-Ik?
La leggenda metropolitana, alimentata dai giornali italiani dell’epoca, vuole che il centrocampista nato nel ’43 a Pyongyang fosse un dentista, forse a voler rimarcare maggiormente la figuraccia dei tanto decantati professionisti nostrani. In realtà, si trattava di un caporale dell’esercito che, dopo il Mondiale, fu promosso a sergente. Successivamente lasciò la carriera militare e si impiegò come insegnante di ginnastica. Alle Olimpiadi di Montreal del 1976 fu C.T. della nazionale coreana.
Tuttavia, pare che possedesse davvero il diploma da odontotecnico.
La Federazione chiude le frontiere
Ad accogliere la sfortunata delegazione all’aeroporto di Genova accorrono almeno 600 tifosi inferociti, con tanto di lancio di ortaggi verso i giocatori, accusati di scarso impegno e attaccamento ai colori nazionali.
Il clamore in tutta la Nazione è enorme. Tra le cause della disfatta si individua subito la mancata valorizzazione dei nostri giovani talenti a vantaggio degli stranieri. La Federazione italiana, allora, corre ai ripari: chiusura delle frontiere per i giocatori esteri! In serie A resteranno solo gli atleti già ingaggiati precedentemente. Si spera, così, di risollevare le sorti della nazionale, che in effetti vincerà l’Europeo ’68 in casa a Roma contro la forte nazionale jugoslava.
Gli effetti sulle squadre di club
Gli anni della chiusura agli stranieri trascorrono tra alti e bassi per le squadre di club italiane. Si segnalano solo una Coppa delle Coppe vinta dal Milan nel 1973 e l’affermazione della Juventus nell’edizione 1976-‘77 della Coppa Uefa. In generale, le italiane segnano il passo rispetto alle compagini di altri campionati, come quello inglese e quello spagnolo, che permettono la presenza di calciatori stranieri.
Quattordici anni dopo
Nel 1980 la FIGC decide la riapertura delle frontiere. In verità, è permesso ingaggiare solo uno straniero per squadra. Ma l’occasione è ghiotta per le società di Serie A. In quell’estate giungono in Italia campioni in grado di cambiare il volto delle squadre e di suscitare l’entusiasmo dei tifosi. In giallorosso approda Paulo Roberto Falcao, l’ennesimo “ottavo re di Roma”, con il suo tocco di palla quasi divino e l’arguta sapienza tattica. A Napoli, Totonno Juliano porta “sua maestà” Ruud Krol, maestro del calcio totale olandese. A Torino, sponda bianconera, c’è Liam Brady ad aggiungere tecnica al centrocampo muscolare della Vecchia Signora, mentre a Milano, sponda nerazzurra, arriva il dinamismo di Prohaska. Ad Avellino, invece, comprano le gioiose giravolte di Juary intorno alla bandierina del calcio d’angolo. Certo, arrivano pure meteore e bidoni clamorosi, come Luis Silvio Danuello alla Pistoiese ed Eneas al Bologna: calciatori comprati a scatola chiusa, che hanno fatto la fortuna solo dei procuratori. Ma è innegabile che, in generale, l’apporto degli stranieri è determinante per migliorare le rose delle nostre squadre e per alzare il livello del nostro campionato, già squarciato dal calcioscommesse ed esasperato dal tatticismo degli allenatori nostrani.
Gli stranieri fanno sognare i tifosi
In tutti i casi, straniero diventa sinonimo di fuoriclasse, e le figurine degli iconici calciatori esotici vengono scambiate almeno per 3 o 4 dei colleghi italiani. Sotto l’ombrellone i tifosi sfogliano i giornali sportivi sperando di leggere il nome dello straniero che la propria squadra acquisterà per il prossimo campionato.
L’allargamento del numero di stranieri
Qualche anno dopo, la Federazione deciderà di allargare il numero degli stranieri tesserabili per squadra: prima due, poi tre. Arrivano così nel nostro campionato giocatori che hanno fatto la storia del calcio: Zico all’Udinese, Platini alla Juventus, Rummenigge all’Inter, D10s al Napoli, Socrates alla Fiorentina; e poi il trio olandese del Milan, il trio di Panzer tedeschi dell’Inter, i sudamericani del Napoli, insieme a pacchi clamorosi e a giocatori mediocri o poco adatti al nostro campionato.
La sentenza Bosman
Nel 1995 il calciatore belga Jean-Marc Bosman diventa famoso per aver legato il proprio nome a un provvedimento giurisdizionale della Corte di giustizia dell’UE. Di fatto, la sentenza equiparava il calciatore a ogni altro lavoratore e, per tanto, gli conferiva, in base al Trattato di Roma, il diritto alla libera circolazione nei paesi aderenti all’Unione Europea. La rivoluzionaria sentenza cambia radicalmente il mercato dei calciatori: non è più possibile porre un limite alla presenza di giocatori comunitari in qualunque campionato. È la nascita del fenomeno delle cosiddette squadre multinazionali.
La situazione odierna
La legge Bosman ha ripercussioni anche sui vivai. In Italia, in particolare, le società di calcio manifestano quasi da subito la tendenza a preferire l’ingaggio di giovani stranieri piuttosto che a favorire la crescita e la valorizzazione degli atleti nazionali. Così si giunge al colmo che alcune squadre arrivano a schierare in campionato formazioni senza la presenza di giocatori italiani. Un vero guazzabuglio di lingue e di nazionalità diverse, che crea senz’altro problemi di comprensione tra i giocatori stessi. Non è un caso che, nei primi anni ’80, i calciatori provenienti dall’estero imparassero subito la lingua italiana, mentre oggi, dopo anni di permanenza nel nostro paese, alcuni di loro non sono in grado di formulare una frase completa nella lingua di Dante (e forse neanche gli interessa!). Emblematico, in questo senso, il caso di Cristiano Ronaldo, che ha imparato con solerzia l’inglese e lo spagnolo nelle sue stagioni al Manchester e a Madrid, ma si è guardato bene dall’apprendere qualche parola d’italiano durante i suoi tre anni alla Juventus.
Lo straniero non fa più sognare
Al di là degli aspetti prettamente linguistici, comunque, resta il fatto che l’improvvisa inflazione di giocatori esteri, alcuni dei quali assolutamente mediocri, ha ridimensionato nell’immaginario collettivo la mitica figura dello straniero, che oggi non rappresenta più il sogno proibito di un’estate pallonara.
Quanto, poi, la massiccia presenza di stranieri nella nostra massima serie abbia condizionato anche le prestazioni della nazionale azzurra, lo lasciamo decidere alle analisi di chi comanda i fili di quel gioco che da oltre un secolo appassiona i tifosi italiani.