26′ compagnia, IX battaglione, 187′ reggimento paracadutisti Folgore.
La storia scritta sulla sabbia di El Alamein non l’ha portata via il vento caldo.
Rimbombano i numeri: cinquemila di qua, sessantacinquemila di là. 80 pezzi di artiglieria contro 500. Zero carri contro 400. Zero aerei contro così tanti che nessuno è riuscito a sapere quanti. Ci si spiana a terra per lanciare a palomba le bottiglie svuotate di birra e colme di liquido che infiamma, piccoli cannoni, una manciata di mitragliatrici, bombe a mano, pugnali, grida di battaglia. Il deserto si prende migliaia dei nostri e tre volte tanto dei loro, l’italiano ripiega ma non arretra, l’ordine del comando supremo sentenzia la resa, vince chi aveva tutto, di certo non perde chi aveva poco.
La 26′ compagnia si batte a difesa del settore di Munassib, campo minato difensivo da cerniera con quota 105, manipoli di fratelli a fronteggiare due brigate corazzate e due di fanteria. Cinque giorni di strenua difesa chiusi con un’azione di contrattacco dove due rette, follia e coraggio, stanno su uno stesso piano e s’incontrano.
La 26′ compagnia del venticinquenne tenente Francesco Marini Dettina, Franco per tutti, anche per i suoi superiori che reclamano per lui la medaglia d’argento al valor militare.
Venti anni dopo
1 luglio 1962, Francesco Marini Dettina diventa il tredicesimo presidente della AS Roma 1927. Galantuomo appassionato, ma guai a ricordargli il blasone di famiglia, eredita una situazione economica pesante con un passivo che sfiora il miliardo di vecchie lire. Porta ambizioni e novità. L’entusiasmo costa zero, ma dura poco. Porta un ex campione del mondo, Alfredo Foni, sulla panchina. Poi porta mister mezzo miliardo, Angelo Benedicto Sormani, e il gigante buono, John Charles, che arriva ancora alto, ma non più prima degli altri come nei suoi anni migliori a strisce bianconere. Infine, porta soprattutto una Coppa Italia, quella del 1964 con il goal di Nicolè che spezza l’equilibrio della doppia sfida finale con il Toro del Paron Rocco.
Senza stellette, senza medaglie, Franco prova a tenere botta in un calcio già dominato da affari, squali e quaquaraqua. Fazioni, lotte, diffamazioni.
Il ponentino ci mette, a chiacchiere, il carico da undici quando è solo una collezione di errori tecnici (campioni o bidoni) e gestionali (spese leggere, affari farlocchi) a far precipitare la sua gestione fino al punto più basso, la sera di San Silvestro ’64 al teatro Sistina dove miseria, amore e nobiltà si mescolano come oggigiorno è impossibile immaginare.
Disinvoltura, cuore puro e sfortuna
Francesco Marini Dettina prende la Roma con i buffi. La restituisce – sei anni dopo – con i buffi.
Ci perde di suo. Oltre a quello che lascia sui tavoli da gioco, perde anche un po’ di faccia, paga troppa disinvoltura, cuore puro e sfortuna.
Avanti anni luce per certi versi, ma sempre fuori sintonia con un mondo non suo.
Il suo mondo era a 4.000 km da Roma, il sacrario tra Alessandria e Marsa Matruh, a 14 km da El Alamein, dei suoi ragazzi. Progettato e realizzato da Paolo Caccia Dominioni, l’ex comandante guastatori genio di quel fronte onore e gloria. Il suo mondo era ricordare (“il sacrificio è stato enorme, il riconoscimento non è mai arrivato“), ricordare chi non era tornato, ricordare con i reduci, primo fra tutti Alberto Marchesi, amico e commilitone di reggimento con la stessa passione per lo sport, rugbista e poi meravigliosa penna che mi onoro di aver conosciuto. Discutevano di Roma e mortai da 88, di Angelillo angelo sporco da non far partire, e dei maori che venivano sotto la trincea imbottiti di bombe e rhum.
Discuteva di come era possibile che commercialisti e tecnici latini, per di più bolliti, gli potessero togliere il sonno più del nemico del deserto.
Delle giravolte della storia, beh, di quelle era meglio non chiedergli.
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