È il 21 Dicembre 1872 a Portsmouth le banchine iniziano a fremere di lavoratori e marinai.
Insieme a loro, però, quella mattina sono molti anche i curiosi.
Sono tutti lì per il Challenger che non è una delle tante barche pronte a prendere l’Oceano, così come anche il suo nome non è un nome come tanti. Anzi, il suo nome è proprio un destino.
L’HMS Challenger è infatti la prima corvetta di Sua Maestà che dedicherà un viaggio intorno al Mondo esclusivamente per lo studio scientifico degli oceani. Come la volete chiamare questa, se non sfida?
Oggi vi può sembrare normale, ma fate un salto indietro e vedetevi nel 1872.
Se fosse stati a Portsmouth, probabilmente su quella banchina vi sareste assiepati anche voi.
La sfida
Il viaggio dell’HMS Challenger avrebbe toccato tutti gli angoli del globo per raccogliere dati sulle profondità oceaniche, la loro chimica e la geologia.
La sfida, perché proprio di questo si trattava, sfida e grande avventura, era stata proposta dal naturalista William Benjamin Carpenter, dell’università di Londra, e dal suo collega dell’università di Edimburgo, Charles Wyville Thomson.
I due, in seguito alla pubblicazione dei lavori di Charles Darwin, si erano convinti che fosse necessario organizzare una spedizione per studiare le profondità oceaniche concentrandosi, in particolare, sulle loro temperature e sulle specie che abitavano gli abissi, di cui si sapeva veramente poco.
Il periodo era oltremodo favorevole; la Gran Bretagna era la principale potenza navale, l’unica globale e, allo stesso tempo, voleva mantenere il primato in campo scientifico-tecnologico. L’organizzazione della spedizione, affidata all’ammiraglio G.H. Richards che in quel momento era idrografo dell’ammiragliato, richiese due anni, dal 1870 al 72. Poi, finalmente, arrivò il 21 dicembre.
La corvetta
Per lanciarsi nell’avventura, l’HMS Challenger cambia anima e si veste a nuovo: sedici dei diciotto cannoni di bordo furono rimossi per fare spazio a laboratori e cabine supplementari e, inoltre, fu costruita una piattaforma apposita per scandagliare il fondale.
Affiancato da diversi specialisti, a comandare l’equipaggio fu chiamato George Nares. Con lui lo stesso Thomson, al quale fu affidata la direzione scientifica della spedizione, i biologi John Murrav e H.N. Moseley, il chimico e geologo J. Y. Buchanan e il dottor. J.J. Wild. A far funzionare tutto un’imponente ciurma di 225 marinai.
Quando la rotta è il Mondo
Il 21 dicembre il Challenger molla gli ormeggi e Nares prendono rotta verso le isole Canarie, poi toccano Lisbona, Gibilterra e Madeira, si lanciano nell’Atlantico e toccano le Bermuda, risalgono per Halifax in Nuova Scozia, passando nuovamente per l’Atlantico, verso le Azzorre e poi oltrepassano l’equatore, in direzione del Brasile. Ad un anno dall’inizio della spedizione il Challenger è in Oceano indiano, poi arriva in Antartide dove costeggia il pack. Nel marzo 1874 il Challenger è in Australia, per poi raggiungere la Nuova Zelanda, le isole Fiji, le nuove Ebridi, poi le Filippine e infine Hong Kong.
Ma il Challenger non si ferma più. Va in Giappone, visita poi le isole Sandwich (attuali Hawaii) e Tahiti; nel novembre attracca a Valparaìso, in Cile. Superato lo stretto di Magellano, il Challenger torna in Atlantico e dopo 5 mesi, rivede la costa inglese. Casualmente, forse, nel giorno del cinquantunesimo compleanno della regina Vittoria, il 21 maggio 1876.
Ciò che rimane
Per completare l’impresa l’HMS Challenger impiegò tre anni, durante i quali percorse quasi 68.890 miglia marine, rimanendo al largo per 713 giorni su 1.606 di viaggio.
L’equipaggio rimase per lo più unito durante la spedizione, sebbene alcuni marinai, provati dalle lunghe soste e tempi morti, abbandonarono la missione.
La rotta del Challenger fu intervallata da 362 “stazioni”, durante le quali venivano raccolti i dati, osservazioni metereologiche e atmosferiche, campioni di fondale ed esemplari di fauna marina. Alcuni degli esemplari zoologici vennero poi donati al British Museum, mentre altri trovarono casa all’università di Edimburgo. Almeno fino a quando, proprio con il compito di catalogare, studiare e conservare dati e reperti della spedizione, non fu istituito il Challenger Office.
La stessa pubblicazione si può considerare un’impresa nell’impresa, visto che serviranno altri 20 anni e 50 volumi ricchi di 29.552 pagine e 3.000 tavole e piante per restituire al Mondo i risultati della più grande avventura oceanografica del secolo.
John Murray, che aveva vissuto a bordo gli anni della spedizione e che dopo si sarebbe dedicato alla supervisione della pubblicazione, la descrisse come “il più grande progresso per la conoscenza del nostro pianeta dopo le celebrate scoperte del quindicesimo e del sedicesimo secolo“.
Centocinquanta anni fa c’era già chi voleva bene a questo nostro unico Pianeta.