Prima della partita.
Davanti allo specchio, in bagno, un momento mio e solo mio, per prepararmi alla partita. Mi sciacquo la faccia con acqua fredda e mi ripeto tre volte: tranquilla, concentrata e cattiva – tranquilla, concentrata e cattiva – tranquilla, concentrata e cattiva.
Perché è così che mi sono sempre preparata prima di affrontare una partita di pallavolo: tranquilla per non sentire la pressione di dover vincere, concentrata per pensare bene a cosa fare e per rendere al meglio e cattiva per essere determinata a raggiungere l’obiettivo.
È questo uno dei tanti ricordi della Sara pallavolista, la persona che sono stata fino a 31 anni e che, nel bene e nel male, mi ha fatto diventare quella che sono ora: una ragazza di 42, che guarda al suo passato sportivo con tanta ammirazione, affetto ma anche con una certa rabbia.
Rabbia perché se ci penso bene, io non so davvero se quello che avrei voluto fare nella vita fino a 31 anni era giocare a pallavolo.
Ogni volta infatti che mi chiedono del mio passato sportivo, rispondo con la solita frase: tornassi indietro, finirei l’Università, vorrei rivivere tutto ciò che è stato, con la testa di oggi. Farei forse scelte diverse, mi godrei di più certi momenti, apprezzando maggiormente le esperienze bellissime che ho vissuto.
Così è andata e questa è la mia storia.
La mia storia
La storia di una bambina di 8 anni che, spinta dal papà, ha iniziato a giocare a minivolley e si è trovata ben presto a fare la palleggiatrice con ragazze tutte più grandi.
Un ruolo, quello del palleggiatore, con cui ho sempre lottato, odiato alla morte e amato alla follia, che mi ha regalato grandissime gioie, ma, diciamolo, anche tanta sofferenza.
Il mio incubo ricorrente di quegli anni? La palla alta in posto 4!!
Mi sono sempre domandata chi avesse inventato quel tipo di giocata, come fosse umanamente possibile poter alzare il cosiddetto campanile senza fare ‘doppia’.
“Sara, più alta!”: quante volte avrei voluto urlare… ma basta, mi avete rotto con sta palla più alta!
Tanto ho odiato quell’alzata, tanto ho amato, amo e amerò per sempre la cosiddetta ‘palla dietro’ e i primi tempi.
Dentro di me, sapevo che la vera Sara, la vera Baldiz, era quella che, in modo del tutto naturale, senza fatica e senza pensarci, era capace di alzare una palla in posto 2 perfetta anche da sdraiata a terra, ma era la stessa che in riscaldamento, nelle giornate ‘no’, non riusciva ad alzare una semplice palla in posto 4.
Da piazza Pallavicini a Genova – Rivarolo, dove ho iniziato a 12 anni ad allenarmi per la prima volta con le ragazze grandi della Serie C, quelle che, fino ad allora, ero sempre andata a vedere il sabato con tanto di cartelloni fatti a mano per incitarle, fino al palazzetto della Scavolini Pesaro di serie A1 con giocatrici famose come Nadia Centoni, Antonella Del Core o ancora Simona Rinieri, non ho mai smesso di sentirmi inadeguata e orgogliosa allo stesso tempo.
Eppure dei segnali li ho avuti: i pianti a fine allenamento a 13/14 anni per le lamentele delle giocatrici più grandi, il rifiuto ad andare a Cuba con la Nazionale pallavolo pre-juniores dopo un ritiro di 20 giorni a Paderno del Grappa con un allenatore mito come Beppe Bosetti.
Ho detto no alla Nazionale giovanile, deludendo allenatore, compagne e soprattutto il mio papà, ma forse, per l’unica volta in 23 anni di sport, ho fatto prevalere la mia volontà.
E così ho continuato a fare la palleggiatrice, ho avuto l’occasione a 16 anni di andare a giocare fuori casa, alla Maurina Imperia in serie A2 e da lì è iniziata la mia avventura in giro per l’Italia fino all’età di 25.
Imperia occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore: ricordo la mia prima compagna di casa, una russa che mangiava solo yogurt e cetrioli, mentre io, che non sono mai stata una cuoca e non lo sarò mai, andavo avanti ad Insalatissime Rio Mare con la salsa tonnata.
Nove anni lontano da casa, fatti di sacrifici, vittorie e sconfitte, ma anche di grandi amori, spesso sbagliati, di amicizie vere, quelle che rimangono per sempre, e di una continua lotta tra ‘Ora smetto di giocare e finisco di studiare‘ e ‘Ma può esistere la mia vita senza la pallavolo?‘
E così, da Pinerolo il primo anno di Università, passando per gli anni indimenticabili di Brescia, sono arrivata alla famosa Scavolini Pesaro in serie A1, per poi tornare a 25 anni nella mia Genova.
Brescia, è li che ho conosciuto la pallavolo professionista: quanti ricordi!
Le fughe alle 2 di notte per andare all’Autogrill per cappuccio e brioche; due compagne di squadra cinesi il primo anno in A2 che non facevano altro che bere the verde e mangiare riso.
Con loro ho scoperto la palla spinta in posto 4 e in posto 2: le urla, Sara spingiiiii, erano diventate un incubo ma anche la suoneria del mio cellulare. Peccato che un sabato sera in albergo, durante una trasferta a Roma, mi è suonato il cellulare proprio quando ero con loro: imbarazzo generale, ma poi un abbraccio e forse da lì abbiamo costruito un rapporto che ci ha portato alla finale play-off per la promozione in A1.
Da Brescia è arrivata poi la chiamata di Urbino in A2, un anno difficile, per poi approdare alla Scavolini Pesaro in A1, dove ho conosciuto una delle palleggiatrici più forti di sempre, l’americana Lindsey Berg.
Arrivava ad allenamento in infradito, sempre con l’I-POD nelle orecchie, ma la domenica in partita si trasformava, una iena.
Fare la seconda, la riserva, però non faceva per me, così decisi di tornare a casa per dare una svolta.
E proprio a casa, a Genova, ho ripreso in mano la mia vita e, nel momento in cui pensavo che la pallavolo fosse solo un accessorio per uno stipendio a fine mese, ho ritrovato l’entusiasmo di un tempo e il piacere di allenarmi.
Sono ripartita dalla società in cui ho mosso i primi palleggi e, da una B2 di medio-bassa classifica, siamo arrivati a conquistare la B1, disputando campionati ricchi di soddisfazioni.
La palla alta in posto 4 ha continuato ad essere il mio incubo, ma, grazie all’esperienza maturata negli anni, ho capito che quando non era giornata per il palleggio, quella giocata avrei potuto sempre farla in bagher.
Qui sono diventata la Baldiz Capitano, qui è iniziata la vita della Sara lavoratrice.
Da messa notificatrice di cartelle esattoriali, passando per una lunga esperienza nell’associazionismo sportivo, oggi sono pienamente realizzata professionalmente, grazie al mio lavoro per una società che commercia energia elettrica e gas nel mercato libero, la Duferco Energia.
A 42 anni sono completamente uscita dalla pallavolo; non la seguo in tv, rifiuto qualsiasi invito a partite tra amici e non sono dispiaciuta, come spesso mi sento chiedere, che mio figlio abbia scelto il calcio come sport: i bambini devono fare quello che più li diverte, fare sport assolutamente, ma fare quello che rende felice loro, non i genitori!
La filosofia dello spogliatoio
Ci sono però due cose che mi mancano e mi mancheranno per sempre e che solo lo sport può regalare: l’adrenalina della partita, ma soprattutto lo spogliatoio.
Sì, lo spogliatoio mi manca ogni giorno: le risate che si fanno con le compagne dentro quelle quattro mura, le cavolate che si dicono, quel senso di appartenenza ad un gruppo e la voglia di lottare per un obiettivo comune, valgono anni di sacrifici, tormenti interiori, abbuffate di cioccolato, pianti e disperazioni.
Che si tratti di serie A o serie Z, se fai parte di una squadra non sarai mai solo!
Per questo sì, posso semplicemente concludere, dicendo: grazie volley, sempre nel mio cuore!