Il Taijiquán, 太极拳, “fondamento supremo del pugilato”, nato come tecnica di combattimento, è ormai conosciuto in occidente soprattutto come attività fisica di medicina preventiva. Non è soltanto una disciplina sportiva, è un insegnamento di vita, che, stimolando la ricerca dell’armonia dei movimenti del corpo, conduce a quella della mente e dello spirito. Non va certo dimenticato il risultato sul fisico: la pratica costante porta benefici sul processo digestivo, sul sistema circolatorio e sulle articolazioni.
La conseguenza è un ringiovanimento dell’epidermide e della postura. Sviluppare la forza attraverso il rilassamento e, dunque, trovare peso nella leggerezza, può sembrare una contraddizione, mentre invece è proprio dall’alternarsi del vuoto e del pieno, del passivo e dell’attivo, dalla dualità dello Yin e dello Yang, che si entra in sintonia con l’universo.
Il Taiji è uno stile interno del Wushu, che letteralmente significa arte marziale ed è la definizione moderna più usata nella Repubblica Popolare Cinese per racchiudere ogni tecnica e stile di combattimento. Per alcuni film molti usano, ma non è corretto, il nome popolare di Kung Fu, cioè “duro lavoro o merito”, o più semplicemente “particolare destrezza”, ovvero un esercizio eseguito con abilità, indicato a rappresentare l’essenza della forza.
Ormai è occidentale l’approccio che, proprio sull’onda delle mode, molti hanno con una disciplina antica, rigorosa e difficile come il Taijiquán.
Il mio percorso di avvicinamento al Taijiquán è passato attraverso la pratica della danza e dell’hata yoga.
L’hata yoga era straordinario ma, per un’occidentale, di difficile attuazione. Per avere un giusto allenamento sono necessarie almeno due o tre ore al giorno, più una serie di altre regole.
Io invece ero alla ricerca di una sintesi, di una pratica più veloce. Scoprii il Taiji ragazzina, negli anni ’80, mentre ero a Parigi per girare un film, durante una visita al Théâtre des Bouffes du Nord, dove Peter Brook provava il Mahabharata.
Per un attore dominare il proprio corpo consente più facilmente di entrare nel personaggio. Una volta rientrata in Italia, non trovavo dove imparare, perché era ancora una disciplina sconosciuta. Finalmente l’amico e collega Hal Yamanouchi mi aiutò con il Taijiquán e lo presentai durante il mio programma “Incredibile”. Ma è stato l’incontro con Li Rong Mei, campionessa internazionale, responsabile per l’Europa della scuola di TaijiYong Nian e, allora, commissario tecnico nazionale del CONI, a coinvolgermi fino all’esame di allenatore e poi di istruttore per il Centro Sportivo Italiano.
Li Rong Mei, che come tutti i grandi maestri ha il dono di spiegare con semplicità le cose più difficili, dice che l’obiettivo nella pratica di questa arte marziale è «mente dirige corpo».
Lo scopo del Taiji è il controllo del Qi, della propria energia. E di sicuro non è una cosa che puoi imparare in pochi mesi di corso, magari sotto la guida di qualche insegnante improvvisato.
La forma breve del Taijiquán, forma 24 stile Yang, consente in pochi minuti di riattivare i muscoli e la mente, di controllare la respirazione, di praticare un rilassamento di tutto il corpo. È indispensabile però un allenamento di almeno un paio di anni, sotto la guida di un vero maestro, per essere in grado di svolgere la forma da soli.
Una volta acquisito, si può praticare il Taiji a qualunque età, in qualunque condizione, in qualunque luogo, e fino ad età avanzata. Se poi lo si pratica in gruppo, si avvertirà uno scambio energetico, scoprendo una nuova forma di comunicazione con gli altri.
Entri in palestra, o arrivi in un parco, stressato dal lavoro, dal traffico, dalla ricerca del parcheggio. Ne esci che hai voglia di sorridere, di parlare con gli altri, di fermarti per condividere due chiacchiere ed un caffè, in barba all’ossessione di quello che hai fatto e quello che hai da fare.
Non si può spiegare un’arte marziale con il linguaggio.
Il maestro espone delle regole, mostra delle posizioni, guida l’allievo nell’apprendimento. Poi è l’allievo che deve percepire le proprie sensazioni e seguire le indicazioni che gli vengono da dentro durante l’allenamento.
La pratica del Taijiquán è come un lago vuoto nel quale ogni esercizio versa una goccia d’acqua. Non saprai il momento esatto in cui avviene, ma all’improvviso capisci di averlo riempito, che quello che hai davanti non è più un vuoto, ma un vero lago.
Ci vuole pazienza e, soprattutto, ci vogliono buoni insegnanti perché si tratta di una disciplina precisa, che deve essere trasmessa e praticata attraverso canoni rigorosi.
Pazienza, umiltà, un atteggiamento mentale molto diverso da quello competitivo, da «tutto e subito», cui siamo abituati. Non è un caso che l’ideogramma cinese della pazienza sia rappresentato da un coltello sopra al cuore.
I risultati sono palesi e si vedono.
Il Taiji ha un effetto benefico sui processi digestivi, calma il sistema nervoso, migliora il ritmo cardiaco e la circolazione del sangue tramite un metodo di automassaggio, scioglie le articolazioni e la rigidità muscolare che ci portiamo dietro per le nostre tensioni emotive, ringiovanisce la pelle, rinforza il sistema immunitario. Ho visto persone piegate dall’artrosi ritrovare l’agilità, gente con problemi respiratori ritrovare la gioia di muoversi.
Il Taiji viene definito «meditazione in movimento» e la sua preparazione di riscaldamento «la ginnastica della salute».
Non c’è niente di più vero. Ma soprattutto ti libera.
Dopo anni di pratica della forma quan, ovvero pugno, ho appreso anche forme con le armi, come jian, spada e shan, ventaglio. Molti mi chiedono se lo pratico per difesa personale e rispondo «sì, soprattutto da me stessa».
Noi occidentali siamo convinti di prendere delle decisioni autonome, mentre invece ci lasciamo guidare da blocchi emotivi, oppure temiamo di essere malati mentre invece scontiamo delle tensioni interne.
A questo si riferisce Li Rong Mei quando parla di «mente dirige corpo». Ti riappropri di te stessa e non ti imponi più di essere come pensi ti vogliano gli altri.
Per anni, ad esempio, mi sono sentita costretta a nascondere di essere vegetariana, per non essere oggetto di critiche e facili battute da parte degli altri. Ed è solo un piccolo esempio dei condizionamenti cui tutti ci prestiamo. Dunque, si può parlare di una tecnica di vigilanza, quella fornita dal Taijiquán, contro le maschere che inconsapevolmente indossiamo tutti i giorni. L’importante è accorgersene ed avere una precisa percezione del presente.
E il mio saluto è «alzando gli angoli della bocca», un sorriso, lo stesso con cui si inizia la forma del Taiji: piedi paralleli, gambe divaricate secondo l’ampiezza delle spalle, ginocchia leggermente flesse e mento in dentro, affinché tutta la colonna vertebrale sia in linea, «come un filo che dalla terra unisce al cielo».
Una posizione comoda, lingua che tocca il palato e bocca che un po’ sorride.
È il punto di partenza per una serie di movimenti che, più sono fatti bene, più sembrano semplici ed armoniosi.
Perché, come insegnato dai Maestri: «Meglio praticare molto il poco, che poco il molto