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Andrew McAuley. L’avventura di una vita

Una fotografia che racconta una storia, quella di Andrew McAuley, del suo kayak, del fuoco sacro dell'avventura, di una vita che guardava all'estremo e di due birre che lo aspettano ancora
Andrew McCauly

Sono l’oceano Pacifico e sono il più grande di tutti. Mi chiamano così da tanto tempo, ma non è vero che sono sempre calmo. A volte mi secco e do una spazzolata a tutti e tutto. Oggi ad esempio mi sono appena calmato dall’ultima arrabbiatura. Ieri devo aver spolverato via tre o quattro isole e altrettanti gusci di noce che gli uomini chiamano navi…”. È il 1967 ed Hugo Pratt dà voce all’oceano Pacifico per far iniziare con La ballata del mare salato l’epopea della sua creatura più carismatica, Corto Maltese. Nel 1967 Andrew McAuley non è nato, gli serve ancora un anno per arrivare tra noi.
Quaranta anni dopo, il Pacifico tiene fede all’incipit de La ballata del mare salato e nello stesso tratto di mare dove Rasputin aveva incrociato due naufraghi alla deriva, c’è Andrew.

Una storia in una foto

Quella di Andrew McAuley è una storia di mare, di passione, di coraggio e di sfortuna che non perdona. Una storia scritta tutta in questa fotografia.
Andrew in primo piano avvolto nella sua cerata, il viso cosparso di crema, gli occhi che ti guardano ancora e che se li fissi sembra che siano lì a dirti, a parlarti forse anche a gridarti qualcosa che non puoi sentire, ma puoi immaginare. Alle spalle l’onda è gonfia, possente, incombente. È l’onda del Pacifico che pacifico non è. Non so se sia stata quella la sua ultima onda, ma questa di Andrew è ultima foto. Ultima foto di una vita percorsa tutta di un fiato, a scalare montagne e a sfidare mari.

Il motivo? Uno solo

Un motivo dichiarato senza paura di nascondersi dietro un dito in un’intervista all’ABC rilasciata prima di prendere il mare per l’ultima volta. “Credo di essere molto attratto da un viaggio come questo: è una vera sfida personale. C’è una grande soddisfazione nell’ideare un’avventura improbabile e inverosimile”. E ancora, al Sidney Morning Herald “Quando fai un viaggio del genere, ti esponi alle critiche. Corro dei rischi, ma sono rischi calcolati, e voglio essere al di là delle critiche” Non è follia e meno che mai incoscienza, è fuoco sacro che muove il mondo, è destino che appartiene a uomini rari. Uomini rari che sono capaci di sfidare a occhi aperti il pericolo, ma anche di rispettarlo come quando, a dicembre del 2006, dopo 48 ore trascorse in mare per tentare la stessa traversata, era tornato indietro perché l’abitacolo non gli dava sufficienti garanzie di mantenerlo al riparo dal freddo devastante. Non fu una resa, fu tattica perché lui la sfida voleva vincerla. “Prendere le decisioni giuste in situazioni come questa può salvarti la vita” una volta rientrato, così scrisse sul suo blog.

Vette e abissi

Prima di quell’8 febbraio del 2007, prima di percorrere oltre 1.550 su 1.600 miglia della sua traversata su un kayak da turismo in vetroresina da 19 piedi, prima di mandare un messaggio alla moglie dandole appuntamento a terra per la domenica successiva, c’era stato tanto altro.
C’erano state altitudini vertiginose in Australia, Patagonia, Nuova Zelanda e Pakistan, ascese sempre da percorsi non battuti perché Andrew era, è, così. E c’erano state le altre attraversate, sempre in kayak. Il kayak lo aveva stregato a fine anni novanta, l’esplorazione dei fiordi cileni era stata fatale per fargli scoprire un grande amore. E allora via, con passione assoluta. La traversata dello Stretto di Brass, tra l’Australia e la Tasmania, pericolosissima e fatta non una, ma tre volte. E poi ancora la traversata solitaria del Golfo di Carpentaria che gli fa appuntare sul cuore la nomina di Avventuriero dell’Anno 2005, premio messo in palio dall’Australian Geographic. In fondo non male per un trentanovenne consulente informatico con casetta nella periferia di Sidney.

L’avventura era stata pensata bene

Andrew aveva progettato lui stesso la personalizzazione del kayak: una copertura gialla in fibra a poppa, utile per dormire, per ripararsi dal freddo e impedire l’ingresso dell’acqua anche in caso di ribaltamento. Gialla per essere visibile, gialla con disegno di un fantasmino familiare, Casper, che gli avrebbe fatto compagnia e forse lo avrebbe anche protetto durante il viaggio. Forse. In ogni caso ad Andrew le autorità australiane concedono il visto per la partenza, cosa che avevano rifiutato negli anni prima a un altro avventuriero del mare, Paul Caffyn che, alla notizia dell’impresa di Andrew ne era diventato il primo sostenitore.
L’11 gennaio Andrew si lascia la Tasmania alle spalle e punta dritto verso la Nuova Zelanda. Il 27 gennaio, dopo circa 1.000 miglia coperte, una tempesta rischia di far fallire tutto. È un pessimo momento, ma Andrew stringe i denti, non molla e ce la fa.

“Ci vediamo domenica alle 9,00!”

Dall’altra parte del messaggio scritto l’8 febbraio ci sono la moglie Vicky e il figlio Finlay, tre anni, troppo pochi per ricordare, ma alla preparazione della festa partecipa anche lui. Gli hanno detto che il suo papà sta per tornare e lui non vede l’ora di ricominciare a giocarci. Ci sarebbe stato anche Paul Caffyn e l’abbraccio con Andrew lui se l’era immaginato in mare, andandogli incontro remando e portandosi dietro una bottiglia di whisky e un paio di birre.

Poi arrivano le 19,00 di venerdì 9 febbraio

Mi sentite? Qui è Kayak Uno. Mi sentite? Mi trovo in una situazione di emergenza. Sono in un kayak a circa 30 chilometri da Milford Sound. Ho bisogno di soccorso. Il mio kayak sta affondando, sprofondando in mare, e sto annegando”.
Il messaggio è disturbato, la voce labile, ma la Guardia Costiera fa scattare subito i soccorsi. Nella serata di sabato il kayak è avvistato e recuperato al largo di Milford Sound. C’è quasi tutto, tranne la copertura, il telefono satellitare e il radiofaro di emergenza. C’è quasi tutto, ma non c’è Andrew. “Ci vediamo domenica alle 9,00!”. Domenica, però, non è sempre domenica. Gli aerei pattugliano 25.000 chilometri quadrati di mare in tre giorni poi, il 12 febbraio, le ricerche sono sospese.

Il sogno finisce così. O forse no.

Il kayak di Andrew è esposto all’Australian National Maritime Museum e la sua storia si racconta ancora. Il fuoco sacro non si può mai spegnere.
A guardare Andrew nella foto, a guardarlo negli occhi, ho capito una cosa.
Ho capito che quel suo “Ci vediamo domenica alle 9,00!” era un appuntamento, sì, ma senza data.
Siamo in tanti ad avere due birre da parte Andrew e anche una bottiglia di whiskey, di quello buono.
Torna quando vuoi, noi ci siamo.

Marco Panella, (Roma 1963) giornalista, direttore editoriale di Sportmemory, curatore di mostre e festival culturali, esperto di heritage communication. Ha pubblicato "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015), "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016) il thriller nero "Tutto in una notte" (Robin 2019) e la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021)

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