Chi mi conosce sa che sono sempre stato poco avvezzo a qualunque forma di esposizione mediatica. Magari solo per via del lavoro che ho svolto, le cui vittorie o sconfitte – giusto per ricorrere a un frasario calcistico – ho sempre pensato che dovessero rimanere circoscritte tra gli addetti ai lavori, o anche solamente per la pura e semplice mia innata riservatezza.
Ho ceduto tuttavia agli inviti di Sportmemory per il fatto che il giornale parla soprattutto di sport e di ciò che ruota intorno a questa parola magica, e forse perché, prima di prendere la decisione di raccontarmi, pian piano cominciavano ad affiorare alla mente aneddoti, storie, emozioni sopite per decenni.
Era ormai tutto riposto nel baùle giù in un angolo della cantina.
Poi arriva il giorno in cui qualcuno ti convince che la tua esperienza di sportivo, ancora prima che di calciatore, val la pena di essere raccontata anche a un solo lettore, ove mai fosse così, giusto per incuriosirlo, o magari anche solamente per condividere con lui il valore del “fare sport”. A quel punto è bastato davvero poco perché accogliessi l’invito a parlare della mia seconda passione.
“Mi chiamo Pomarici, con l’accento sulla ‘a’”.
Mi presentai così ai colleghi milanesi appena emigrato da Napoli, e a coloro che pronunciavano il mio cognome, storpiandolo involontariamente, con l’accento sulla ‘i’ della penultima sillaba, come vorrebbe la nostra lingua. Era più che naturale, non mi conoscevano, in breve tuttavia le cose tornarono al loro posto e io ne fui lieto. Sul nome invece ho qualcos’altro da aggiungere. Il mio è Ferdinando, mi chiamo come mio nonno, proprio secondo la tradizione napoletana, direi quella di noi meridionali. Non mi sono fatto mancare nulla però e così ho pure un secondo nome, Enrico, mutuato da uno dei fratelli di mio padre.
Quarto di cinque figli maschi – mio padre era l’ultimo – zio Enrico morì prematuramente in un incidente di caccia. E così in casa, tutti hanno preferito sempre chiamarmi Enrico, sin da piccolo. E altrettanto fanno gli amici. Ferdinando è rimasto pertanto negli atti pubblici, in eventuali apparizioni ufficiali, sempre più rare, e sulla bocca di coloro che ricorrevano addirittura al diminutivo Nando, chiamandomi in quel modo, peraltro da me mal tollerato, magari solo per millantare una confidenzialità a mio avviso del tutto inesistente.
Veniamo adesso alla vera ragione per la quale sono su queste pagine.
Per parlare di una delle mie passioni come dicevo, per qualcuno anche amore, per il calcio e per lo sport in generale dal momento che ho collezionato qualche buon risultato anche in altre discipline: sci e tennis su tutte. Ho lasciato quello agonistico, che nella mia carriera di calciatore ho praticato in squadre dilettantistiche, perché anch’esse, come quelle più blasonate, imponevano orari e regole fisse, palestra, allenamenti sul campo e molte ore di teoria. Certamente non perché di punto in bianco non volessi più rispettare le regole, ma perché avevo appena compiuto cinquant’anni – era il ’92 – e il tempo per fare tutto, e bene, purtroppo andava riducendosi e pure il fiato e il tono muscolare, dovendo affrontare in campo avversari sempre più giovani, con grinta e tenacia lungi dalle mie ormai residue energie. E prima o poi arriva per tutti anche il giorno in cui ti rendi conto che lo sport, unito all’altra grande passione, lo scontro nell’arena del tribunale – spazio di altro genere di competizioni – insomma, giunge inesorabilmente il tempo in cui realizzi che pur di non sottrarre ore agli impegni di lavoro, lo hai tolto tuttavia alla famiglia, ai figli divenuti grandi all’improvviso, ormai andati via da casa, e che ti hanno anche reso nonno. Altra grande gioia e per me, oggi, dono dal valore inestimabile.
Da quell’anno in avanti ho quindi pensato che sarebbe bastato dedicarmi solamente alla nazionale magistrati che volli fortemente istituire e contribuii a mettere su insieme a colleghi che avevano una certa dimestichezza con il calcio come potevo averla io, e poi, giocare per fini nobili era cosa che mi avrebbe appagato.
A tal proposito, mi sfiora un sorriso sulle labbra nel veder scorrere davanti agli occhi le immagini di un memorabile incontro con la nazionale cantanti.
Era il 1995, si trattava della “Partita del cuore”, un noto evento calcistico con finalità benefiche – gli incassi quella sera superarono il miliardo di vecchie lire – giocammo allo stadio Giuseppe Meazza, conosciuto dai più come “San Siro”. In precedenza li avevamo già incontrati al “Brianteo” di Monza, diciamo in forma amichevole, e li avevamo pure battuti.
Quella sera lo scontro aveva tutt’altra rilevanza rispetto al precedente, il catino dello stadio e i suoi settantamila spettatori assiepati, la diretta Rai, Fabrizio Frizzi che fungeva da telecronista.
Loro, i cantanti, avrebbero dato via anche il sangue pur di stenderci, ciascuno di essi non poteva deludere neppure uno, dieci, cento tra i propri fan sulle gradinate che erano lì di sicuro per la finalità della partita, ma soprattutto per vedere, ciascuno, il proprio beniamino da vicino cimentarsi in qualcosa che andasse oltre la canzone.
Noi eravamo invece conosciuti solo dai nostri parenti, molti dei quali avrebbero guardato la partita in TV, e dagli amici e colleghi. Più di qualcuno forse neppure era mai entrato in uno stadio prima di quella sera e volle farci tuttavia la concessione di esserci.
Questo per confermare, ove mai ve ne fosse bisogno, che i settantamila non erano lì per i magistrati. Eppure le musiche ad altissimo volume diffuse dagli altoparlanti e il vociare di decine di migliaia di esseri umani, pur giungendo ovattate a noi che eravamo negli spogliatoi in attesa di entrare nell’arena, misero in circolo tanta di quella adrenalina e formarono nello stanzone invisibili correnti di ansia così che ricordo gli occhi addosso di un collega che si rivolse a me chiedendomi come potessi essere calmo e sereno. È evidente che così apparivo.
Un fondo di verità c’era, da ragazzo, ero molto giovane, avevo giocato nella primavera del Napoli, la seconda squadra era denominata così, e noi ogni domenica in casa giocavamo i novanti minuti della partita che precedeva quella più importante della prima squadra.
Il San Paolo che nella prima parte della mia vita di calciatore è stato per me una seconda casa, andava via via riempiendosi fino all’ultima seggiola, in breve passavamo dai due mila spettatori al pienone.
Ma l’apparenza inganna, non era vero che fossi calmo, ero coinvolto anch’io dall’eccitazione, seppure moderata, che aveva preso i miei compagni di squadra e colleghi, avvertivo di sicuro la tensione di voler vincere ad ogni costo. Quella sera non giocavo in un campetto di periferia davanti alla solita platea di tifosi arrabbiati, per la gran parte di sesso maschile, pronti a lanciarti strali al primo liscio. Quella sera avevamo addosso gli occhi di bambini, ragazzi, genitori più o meno giovani e sicuramente anche di tanti nonni.
Non era solo una partita, eravamo nel mezzo di una grande competizione collettiva.
Salimmo gli ultimi gradini e ci trovammo sull’erba uno dietro l’altro prima di raggiungere a passo accelerato il centro campo. Lo spettacolo era davvero eccitante ed esaltante.
Lo speaker all’altoparlante dopo aver scandito uno ad uno i nomi degli avversari, ricordo Morandi, Ruggeri, Barbarossa, giusto per citarne qualcuno, passò ad annunciare la nostra formazione e confesso, quando pronunciò il mio nome, un leggero brivido mi scorse lungo la schiena.
Il mio primo pensiero andò ad Annalisa e Vittorio, i miei figli che sapevo essere da qualche parte fra i settantamila e che io non potevo vedere, ma loro di sicuro vedevano me.
Il secondo andò a mio padre. Io non ero neppure ventenne – diceva che mai sarebbe venuto a vedermi giocare – e invece io lo cercavo sempre in tribuna e lo riconoscevo nell’angolo da lui preferito per via della sua pelata conseguente a un intervento alla testa. Ma lui negava sempre. E io tacevo sempre. Mi bastava sapere che c’era. Mia madre, invece era una mia assidua tifosa e si faceva accompagnare sempre, anche in trasferta, da Maria Rosaria, la mia ragazza che diventò poi mia moglie e che oggi ringrazio pubblicamente per non avere mai ostacolato la mia grande passione, seconda solo a lei.
Avevo abbandonato da molto tempo il mio ruolo di portiere, quello che mi aveva visto crescere nelle giovanili del Napoli, e quella sera a Milano giocai da ‘libero’, il ruolo che mi ero ritagliato nel momento in cui decisi di abbandonare i pali.
Libero: cosa sanno di questa parola i millenials, avvezzi oggi a ruoli in campo come centrale destro, sinistro o esterno.
All’epoca c’era il libero, lo stopper, il mediano di spinta, l’ala, semplici parole di immediata comprensione. Mi adattai presto a quel ruolo forse perché dopo tanti anni da numero uno in cui ero stato io a dirigere tutta la difesa e a gestire la posizione in campo del mio libero lì davanti a me, pensai che avrei potuto essere avvantaggiato e di sicuro avrei agevolato il compito del mio portiere.
Ricordo un particolare episodio di quella sera in cui ebbi un’impetuosa reazione che non faceva parte di me, non ero abituato né a litigare né a minacciare, eppure… le cose andarono pressappoco così.
Arrivò alle mie spalle Eros Ramazzotti che in precedenti azioni avevo già visto particolarmente nervoso e teso, mi tirò un calcio così violento alla caviglia se non da espulsione, da sicuro cartellino giallo, il dolore fu terribile, ebbi la forza di girarmi di scatto e a brutto muso gli urlai: “Guarda che se voglio picchiare, sono capace anch’io di andare duro e non so come esci dal campo stasera”.
“No, no Pomarici, scusami, scusami non succederà più”. L’espressione del viso fu di chi era consapevole di aver sbagliato, di uno che si era davvero spaventato. Dovevo avergli messo proprio paura.
I primi calci alla palla li tirai in strada o in qualche cortile.
Come del resto tutti in quell’epoca. Siamo nel dopoguerra e a Napoli l’unica attività sportiva che noi ragazzini potevamo praticare era il calcio e lo facevamo in qualunque spazio all’aperto ci trovassimo. Io ero il più piccolo d’età e i grandi ai quali mi accompagnavo, quelli che organizzavano le partitelle fra amici, mi chiamavano e mi obbligavano a giocare in porta non perché fossi il più scarso, tutt’altro, ma per via dell’altezza superiore alla media del tempo.
La cosa cominciò ad appassionarmi e la presi come una sfida tra me e quei ragazzi più grandi: “vediamo se siete capaci di farmi goal” andavo pensando e anche dicendo e in breve tempo decisi che avrei continuato a giocare prevalentemente in quel ruolo in cui nel corso degli anni mi affinai sempre più sul piano tecnico.
Mi capitò di giocare anche in altri ruoli, senza mai raggiungere però la qualità che esprimevo quando ero tra i pali. Il tempo mi dette ragione dal momento che da portiere, regolarmente iscritto alla Federazione, giocai poi nei pulcini del Napoli, a seguire tra gli juniores, finché alcuni osservatori non mi spinsero ad andare in altre squadre dove raggiunsi la “promozione”, per poi tornare a diciotto anni nel Napoli, la squadra per la quale tifavo sin da bambino e tifo tutt’ora, anche se il calcio a livello di tifo, oggi, mi prende meno.
Giocai così nella ‘primavera’ del Napoli e approdai in prima squadra dopo una selezione interna. Fummo presi in due, Antonio Juliano ed io naturalmente. Con Totò, grande amico dentro e fuori il rettangolo di gioco, feci un percorso di crescita molto entusiasmante, con lui ebbi modo di giocare fino a quando le nostre strade si separarono per necessità.
Lui fece poi una brillante carriera, giunse infatti in prima squadra e anche in Nazionale, io invece finii per giocare solo in partite amichevoli. Fu quello un periodo molto significativo, decisi infatti di non proseguire a livello professionistico proprio nel momento in cui il Napoli mi dette l’opportunità del salto di qualità: partecipare al Torneo di Viareggio, la grande vetrina che permetteva ai giovani talenti di mettersi in luce.
La competizione era il più importante trampolino di lancio per qualsiasi giovane calciatore. Nella circostanza avrei dovuto lasciare le aule universitarie per almeno una settimana, e così rifiutai neanche troppo a malincuore la proposta del Napoli, e optai invece e definitivamente per quella che sarebbe stata, auspicabilmente, la mia carriera futura. Auspicio che si realizzò anche grazie alla mia tenacia e grande forza di volontà.
Ho sempre avuto la consapevolezza, forse sin da piccolo, che per me il calcio sarebbe stato esclusivamente un divertimento, uno svago e mi imposi che tale dovesse rimanere.
Sarei tornato volentieri a giocare in squadre a livello dilettantistico e così ho fatto, e mai ho avuto un rimpianto, neanche quando vidi che i miei primi stipendi da magistrato erano più bassi di quelli da calciatore professionista che accantonati nel tempo mi permisero anche di mettere presto su famiglia.
Quanti amici mi hanno rimproverato di avere abbandonato una sicura brillante carriera da calciatore. Eppure, non ho mai avuto dubbi sulle mie preferenze. Doveva rimanere un gioco, tanto che un giorno, il dirigente di una Società nella quale militavo mi venne a trovare, mi pare di ricordare in procura, per chiedermi se fosse successo qualcosa. Non capii. “Dottore, sono almeno due mesi che lei non si fa vedere, neppure per ritirare lo stipendio”. “Come” – risposi io – “mi fate giocare, mi diverto e volete pure pagarmi?”.
Desidero chiudere questo mio intimo snocciolare di fatti, che ora non sono più intimi, con una breve storia dei miei inizi a Milano.
Avevo appena terminato il mio periodo di tirocinio di magistrato a Napoli e fui destinato alla Procura di Milano. Avevo chiuso con il calcio e presto quel recente passato sarebbe diventato un lontano ricordo. Primi giorni in tribunale, ad eccezione di due, tre colleghi, nessuno ancora mi conosceva come procuratore, eppure la mia fama di calciatore mi aveva di gran lunga preceduto. Si avvicinarono infatti due avvocati che mi chiamarono correttamente, con l’accento sulla ‘a’, e senza alcun giro di parole mi chiesero se fossi stato disponibile a giocare in una squadra composta da avvocati e magistrati e che il mio ingresso sarebbe stato non solo gradito ma soprattutto un onore. Ne rimasi molto lusingato. Fu quello l’inizio della mia seconda lunga vita di calciatore che è finita, come ho detto, nel ‘92.
Dedico questi ricordi a mio padre Vittorio che – forse – non mi ha mai perdonato di aver lasciato Napoli per emigrare a Milano e a mio figlio Vittorio, avvocato, che gioca in porta e che mi ha concesso la gioia di giocare in squadra con lui. Ma come portiere ero di gran lunga più bravo io.