Inutile negarlo, il calcio è arena e, in un certo immaginario, è spesso visto come qualcosa di “becero”, volgare…ma in pochi pensano alla sana aggregazione che ha portato tra i giovani, soprattutto nelle periferie, dove il calcio è sport, a volte evasione e altre volte ancora rifugio e dove, soprattutto, il calcio è pieno di belle storie che lo hanno onorato.
La Silenziosa è una di queste storie, la storia di una squadra chiamata così perché a farne parte erano solo atleti sordomuti.
Nacque a Milano intorno alla metà degli anni 20 del secolo scorso, ma come Società Polisportiva e i primi passi furono difficilissimi per un contesto politico che prevedeva la supremazia (sic) della razza italica con i portatori di handicap destinati a rimanere nell’ombra, ma malgrado tutto qualche gara di atletica riuscirono a farla.
Poi ci fu la guerra con tutte le rovine materiali e morali che portò; tutto si fermò e loro per primi.
La ripresa fu difficile per tutti e si dovettero attendere gli anni ’70 quando a Roma un “Gruppo di Eroi” dette vita di nuovo ad una Società Sportiva dove militavano soltanto ragazzi “sordomuti” ed alcuni di loro, in particolare, in una squadra di calcio che disputò un regolare campionato di Seconda e Terza Categoria … facendosi anche onore!
L’arbitro per ovvi motivi arbitrava con il fischietto e con un fazzoletto bianco che sventolava ad ogni fallo commesso o subito e, certo, ci voleva tanta comprensione e collaborazione da parte di tutti, calciatori, dirigenti e pubblico, ma tutto si svolse sempre nel più regolare dei modi senza che si registrassero episodi di intolleranza.
È passato tanto tempo e dovete perdonarmi se non ricordo bene qual era il loro terreno di gioco, a me sembra fosse quello del Monte Mario, ma non ci giurerei e, in ogni caso, non è importante ai fini del racconto perché giocarci contro presupponeva tanta passione…. soprattutto dopo i primi momenti d’imbarazzo, quando ti accorgevi che tecnicamente non erano poi così scarsi ed anche agonisticamente si facevano rispettare perché in campo, come diciamo noi, menaveno come maniscalchi.
Dopo qualche anno le cose cambiarono e, giustamente, si passò alla loro integrazione nelle squadre…come tutti gli altri calciatori.
Anche nella mia Società ha militato un ragazzo con questi problemi.
Chi conosce Roma sa bene che da noi la lingua punge sempre, figuratevi come poteva essere un campo di periferia negli anni ’70.
Fatto sta che anche nella nostra squadra arriva un sordomuto e noi come avremmo potuto chiamarlo se non er Parola?
Attenzione, però, perché Er Parola era uno di noi e solo noi potevamo chiamarlo così e scherzarci sopra; degli altri, quelli del mondo di fuori, nessuno si sarebbe permesso e, soprattutto, a nessuno lo avremmo permesso.
Ora, Er Parola era bravo, ma veramente bravo.
Nato per giocare a calcio commentava chiunque lo vedeva ed effettivamente era particolarmente dotato, sia atleticamente e sia tecnicamente, fatto salvo un solo difetto, non proprio da poco.
Er Parola perdeva “l’attimo buono”, si distraeva a guardare l’arbitro o gli altri e per questo lo rimproveravo amabilmente ma con fermezza, anche se con risultati poco apprezzabili.
A Falasche (nelle vicinanze di Anzio) decidemmo di farlo giocare dall’inizio; come da regolamento, andai dall’arbitro per segnalargli il fatto e feci lo stesso nello spogliatoio avversario da dove, ovviamente, la notizia si sparse velocemente anche negli spalti.
Neanche ci fossimo dati un appuntamento con il destino, Er parola giocò una partita magnifica e alla fine il pubblico – quello dello sport becero, ricordate? – gli riservò una standing ovation, che io gli segnalai perché non aveva capito che fosse per lui.
Accadde l’impensabile.
Er Parola si commosse come un ragazzino, non riuscì a cacciare dentro le lacrime e così, piangendo, si fece tutta la Tribuna ringraziando e continuando a piangere, ma non era l’unico perché in Tribuna c’erano anche i suoi genitori, anche loro sordomuti e anche loro a piangere.
Gli appuntamenti con il destino, però, non sono solo quelli che accadono su un campo da pallone.
Un certo giorno Er Parola fu assunto all’ACEA, non saprei dire in quale reparto, ma qualunque fosse, la cosa certa era che il suo lavoro prevedeva di fare dei turni.
Fu così che Er Parola che del calcio magari non era una promessa, ma ne aveva tutta l’anima, smise di giocare, almeno in un Campionato FIGC e io lo persi di vista.
Sono passati tanti anni, eppure di lui ho un ricordo vivo e mi sembra ancora di rivederlo, noi tutti negli spogliatoi, io che lo rimprovero per un qualche cosa e lui che non mi guardava in faccia, per poi cercare di dirmi nel loro tipico modo che non aveva capito.
Non ho mai saputo se fosse poi vero che non capisse, ma quando lui me lo diceva io, rassegnato, gli rispondevo facendomi guardare la bocca in modo che capisse il labiale…‘o so, che te credi, te fai er sordo solo quanno ca…o te pare.
Ovviamente la cosa finiva là, nel mondo e nel tempo sospeso di uno spogliatoio con le panche di legno e nessuna comodità, perché era impossibile non ammirarlo e non volergli bene.
E forse è per questo che a er Parola, talento del calcio di periferia e turnista in ACEA di cui non so più nulla, non ho mai più smesso di volere bene.