Guardo papà. Cerco conferme. Cerco un alleato in questa battaglia contro il destino – e il latrocinio – che vuole penalizzare i nostri fenomenali (ma poco letali) azzurri.
«O è incapace, e allora rispeditelo in Brasile. O gli hanno detto di farlo, e allora torniamocene tutti a casa. Una roba così va oltre. Non è credibile». Sebbene più contenuto, il disappunto di papà è ancor più affilato e cocente del mio.
Se anche l’arbitro ci rema contro, non c’è speranza.
Digrigno i denti, mi metto a sedere – questa volta ben aderente allo schienale – e torno off: «Che ingiustizia, che ladrata, ci trattano come l’urss» continuo a ripetermi.
Immagini e suoni mi arrivano ovattati, opachi come l’Italia che, a questo punto, inizia ad accusare la fatica. La frustrazione è tanta in campo, nel quartiere, in me.
L’Austria alleggerisce meglio. Sente di averla scampata, di essere impunita, e tiene più palloni anche nella nostra metà campo. Per un attimo, quando viene accordata una punizione dal limite, visualizzo il gol avversario, ma ricaccio quel pensiero e il tiro di Aigner finisce su “Kaiser Franz”.
Vialli fa fatica, Carnevale è ormai sempre anticipato, Donadoni rallenta vistosamente, Giannini è scomparso dal campo: non ci crediamo più, quel mancato rigore ci ha uccisi.
«Guarda qua chi mette, il fenomeno. Altro che Baggio, Vicini vuole farci uscire nei gironi». La voce paterna mi ridesta dal torpore, giusto per rinfocolare l’ira. Dalla panchina si è alzato Salvatore Schillaci, che è pronto a entrare in campo.
Non rispondo, ma fisso il televisore, disarmato: Salvatore chi? («Quello che per il mondo è un illustre sconosciuto» mi risponderà anni dopo la voce narrante della short version del film ufficiale fifa di Italia ’90).
Schillaci non è nella raccolta Panini.
Non è tra i “Bomberini”.
Di lui papà non ha mai parlato.
Nemmeno lo zio ne ha parlato.
E neppure il nonno, il che significa che calcisticamente non esiste.
Di Schillaci so poco persino io.
So che milita nella Juventus, che è un nanetto, che qualche gol lo fa, ma non ha mai giocato ad alti livelli.
E Vicini, a questo punto della gara, per vincerla mette questo? Con Baggio, Serena e Mancini in panchina? È una follia, premeditata e perciò ancora più grave.
Fuori Carnevale, dentro Schillaci. Da non crederci.
Sono di nuovo on, ma solo grazie alla rabbia. Divento loquace, quasi logorroico, come capita sempre quando oltrepasso i miei limiti psicologici ed entro nel territorio delle emozioni esasperate.
«Io non lo so, ma perché deve fare così? Ti sta sulle palle Baggio? Non convocarlo, allora! Invece no, lo convoca e lo lascia in panchina per mettere ’sto sconosciuto…». Parlo a macchinetta, per una volta guardando papà e non la tv: «Che poi almeno Carnevale ha vinto lo scudetto con il Napoli e ha segnato bei gol, ma Schillaci…».
Il polmone tace all’improvviso.
E anch’io.
Sento Pizzul cambiare tonalità di voce.
«Parte il cross…».
Giro la coda dell’occhio.
Il traversone di Vialli è morbido. In un lampo guardo a centro area. Tra due colossi austriaci c’è una maglia azzurra. Se il cross finisce dove deve, il primo gigante viene scavalcato e il secondo anticipato.
Vuoi vedere che…
Il cross finisce dove deve.
La maglia azzurra fa quello che deve.
Impatta di testa, sola, a centro area.
Mio padre scatta. Lo seguo.
Il polmone inspira.
Il pallone parte. Violento.
Siamo in piedi.
Lindenberger si tuffa. Nel vuoto.
Il pallone si insacca. La rete si gonfia.
Il polmone espira.
È il delirio.
«E c’è il gol! E c’è il gol, proprio di Schillaci!».
Le braccia in alto, come le nostre. Gli occhi spiritati, come i nostri. L’urlo a perdifiato, come il nostro. Schillaci è tutti noi, e tutti noi siamo Schillaci.
«Era ora».
Abbraccio mio padre, gridiamo come ossessi. L’esplosione collettiva scuote il paese, sui terrazzi dirimpetto saettano girandole, scoppiano petardi. «Ora l’Olimpico è tutto uno sventolare di tricolori». Ora Bresso è tutto uno sventolare di tricolori. Ora l’Italia è tutto uno sventolare di tricolori. In strada suonano clacson, trombe, inni nazionali e Un’estate italiana. È una notte magica. E magico è «il ragazzo siciliano», Schillaci, che l’ha resa tale per tutti noi e da adesso è (e per sempre sarà) “Totò”.
(Da A Italia ’90 avevo otto anni di Claudio Bartolini, Bietti Edizioni, Fuori Collana #33, 740 pagine, euro 25,00)