Dici Football e pensi di farla semplice.
In effetti potrebbe esserlo.
Dici Football e pensi al pallone, semplice no?
La parola fa affiorare il vissuto di ognuno, richiama campetti improvvisati, magliette sudate e dissetanti fontanelle di strada, attese ai cancelli dello stadio, gioie e sofferenze da curva o tribuna, radioline all’orecchio una volta e schermi a parete in 4K adesso.
Eppure potenza e fascino della parola e dell’immagine evocata sono inspiegabili senza ricorrere ad altro, all’archetipo junghiano del cerchio e ad altro ancora.
Attrezzo, così giustamente Giancristiano Desiderio nel suo Football. Trattato sulla libertà del calcio chiama il pallone ed è una definizione illuminante che non bisogna mai perdere di vista nell’andare avanti con le pagine agili e scritte con passione non celata.
Senza attrezzo non c’è azione e senza di questa non c’è trasformazione, ovvero non si compie il fine alchemico ultimo dell’Opera.
Attrezzo, ovvero pallone, raffigurazione plastica e dinamica della dimensione magico-simbolica del cerchio e per questo portatore di significato ancestrale e fascinazione implicita.
Quando Johan Cruijff dice che il calcio è semplice. Ciò che è difficile è giocare con semplicità afferma una grande verità che l’autore riprende e che dà subito la misura del campo nel quale stiamo entrando.
Soprattutto se la leggiamo facendo eco all’affermazione categorica di Desiderio che senza alcuna remora sgombra il campo dall’ipotesi sartriana; il calcio non è metafora della vita, come afferma il francese, ma è l’esatto contrario, è la vita a essere metafora del calcio.
In questo capovolgimento di luoghi comuni, tra richiami che vanno da Parmenide a Eraclito fino a Giovanni Arpino, passando per Hegel e Agnes Heller, si definisce da subito il paradigma del Trattato.
Dentro il Giuoco
È così che ci addentriamo pagina dopo pagina nel Giuoco, ovvero attività umana serissima e importante, quella che sin da piccoli determina attitudini, talento, carattere e relazioni, quella che continuiamo a esercitare ogni volta che con i modesti mezzi che ci sono concessi tentiamo di penetrare significati e conoscenza.
Il Giuoco è quindi dimensione parallela dove tutto si riflette e dove, come da sapienza smeraldina, ciò che sta in basso condiziona e riflette ciò che sta in alto.
Proprio come un centravanti che famelico di gol sposta in avanti l’asse dell’azione e in un prezioso equilibrio alternato fa salire la difesa alle sue spalle e abbassa quella avversaria davanti a lui.
Ecco, parafrasando un abusato detto zen, si può dire che mentre il saggio guarda il Giuoco, lo stolto guarda il pallone.
E il Giuoco ha le sue regole, una tra tutte quella del Controllo e Abbandono che lo riassume e lo distingue, con giocatori – definiti tali per la loro appartenenza al Giuoco che gli conferisce significato e non per altro – che per essere in campo, ovvero in Giuoco, ovvero in palla, il pallone devono inseguirlo, conquistarlo, difenderlo per alla fine liberarsene, passandolo o tirando in rete per completare l’Opera, ovvero segnare, ovvero trasformare una dinamica in essenza e sentimento, gioia o delusione, in ogni caso esaltazione umana, attimo non ripetibile e quindi infinito, con il tempo conosciuto che si annulla e diventa eterno.
Fuori il VAR
Un attimo eterno che deve essere umano alla sua esponenziale potenza, non inquinato da occhi esterni al Giuoco, da una tecnologia invadente e terza che lo scruta, anzi lo invade, con la lente di uno spioncino ragionieristico buono a rilevare millimetriche posizioni, ma altrettanto abile a uccidere il pathos e a sbaragliare l’errore umano, sottovalutato e denigrato moltiplicatore del miglioramento di ciascuno di noi
Se mai doveste avere un dubbio, nel Trattato non c’è alcuna clemenza per l’uso del VAR perché un conto è essere in campo dentro il Giuoco, altra storia è trovarsi dentro un profano videogioco.
Árpád Weisz
Ci sono uomini che conoscono queste cose, Giancristiano Desiderio in Football ne cita diversi, ognuno con un tratto oltre le righe che sembra quasi rubato all’epica, e di alcuni traccia il profilo senza esaurirne la narrazione, ma lasciando al lettore la sana libertà di approfondire, di iniziare personali ricerche che lo porteranno dove forse non aveva mai pensato di arrivare.
In questo Pantheon del Giuoco spicca un gigante al quale il Trattato è dedicato, a lui e alla sua famiglia.
Un gigante a lungo dimenticato, un gigante tradito.
Árpád Weisz, ebreo ungherese italianizzato, emarginato dalle leggi razziali del 1938, costretto ad abbandonare l’Italia per finire poi inghiottito insieme alla famiglia nell’orrore di Auschwitz.
Autore con Aldo Molinari de Il giuoco del calcio, un testo definitivo a discapito degli anni, Árpád Weisz è stato allenatore di successo con l’Inter e il grande Bologna, ma mai come in questo caso la definizione stenta a fare giustizia dell’uomo.A meno che non si entri in un’altra dimensione, quella del Giuoco e non della semplice partita, dove il vero incontro è l’equilibrio tra Controllo e Abbandono che si manifesta con assonanze misteriose di movimenti l’uno legato all’altro.
Una dimensione dove Árpád Weisz, allenatore per chi lo ha dimenticato o superficialmente accantonato, è invece artefice per i pochi che lo ricordano.
Football
Football di Giancristiano Desiderio porta il lettore al confine del possibile, lo mette sulla strada, gli indica un percorso e, in qualche modo, gli fa intravedere la scelta di mettersi in Giuoco.
Quello che accadrà dopo la lettura, ognuno potrà scoprirlo da solo.
(Football. Trattato sulla libertà del calcio, Giancristiano Desiderio, Liberilibri di AMA srl, 135 pagine, 15 euro)