1946. Westmister College, Fulton, Missouri: Winston Churchill parla della cortina di ferro che dal Baltico all’Adriatico, da Stettino a Trieste, divide l’Europa. Una definizione già in uso in ambiente politico e diplomatico, ma che Churchill per primo declina in un’occasione pubblica.
Era solo l’inizio.
Dopo sarebbero arrivati ricostruzione, Piano Marshall, paura atomica, Muro di Berlino e corsa allo Spazio e tutto questo avrebbe avuto un solo nome, Guerra Fredda, che detto così ha quasi l’aria di essere poetica. Una Guerra che mentre sul quadrante europeo vedeva Stati Uniti e Unione Sovietica fronteggiarsi in un’ottica di contenimento, in altre parti del mondo invece, complice la decolonizzazione e la saldatura degli interessi tra movimenti indipendentisti con quelli espansionistici russo-cinesi, li vedeva affrontarsi senza falsi pudori.
Il primo teatro ufficiale di scontro fu la Guerra di Corea, con Stati Uniti e Alleanza Atlantica impegnati per il Sud e Russia e Cina per il Nord; un conflitto durato tre anni e alla fine sostanzialmente irrisolto e ancorato al 38° parallelo.
Coeva alla guerra di Corea, ma con una proiezione ventennale, la guerra d’Indocina vide dapprima soccombere i francesi, che uscirono di scena dopo la resa nella battaglia di Dien Bien Phu, e poi gli Stati Uniti che, alla luce della Teoria del Domino elaborata da Eisenhower nel 1954, lasciarono sul terreno 58.000 morti e abbandonarono al suo destino il Vietnam del Sud evacuando Saigon il 30 aprile del 1975.
In questo scenario così complicato accade l’impensabile.
Nel 1971, a margine dei Campionati del Mondo di Nagoya in Giappone, un ragazzo, Glenn Cowan, e il suo sport, il tennis da tavolo chiamato con maggiore simpatia ping pong, si infilano nelle pieghe della diplomazia ufficiale e riescono dove questa non era mai riuscita.
Una storia che Renato Ghezzi nel suo “La pace viaggia in autobus”, racconta con il piglio preciso della narrazione documentaria, ma con la pregevole leggerezza narrativa del racconto che, seppur con le dovute licenze creative rispetto al puro svolgimento dei fatti, riesce a renderne una lettura non convenzionale che parla da dentro l’animo dei protagonisti.
È così che un grande episodio di storia diplomatica ci viene restituito da Renato Ghezzi con una scrittura piacevole che si muove a proprio agio nel respiro emotivo di uomini e donne, amici di un tempo passato, ma soprattutto amici che non si erano ancora mai incontrati e che non sapevano di esserlo.
L’estratto, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore, di questo respiro emotivo è esempio, forse addirittura origine. Ma questo potrete scoprirlo da soli perché se “La pace viaggia in autobus”, allora tanto vale che vi mettiate comodi e iniziate il viaggio anche voi.
Marco Panella
La Pace viaggia in autobus (estratto dalle pagine 26 a 33)
IV
Zhuang fece accomodare per prima Frances, poi attese che venisse servito il tè.
Fu l’anziana signora a rompere gli indugi, con l’impazienza di una bambina.
«Allora, caro», esordì mentre sceglieva il primo biscotto, «come ti dicevo, mi piacerebbe sapere qualcosa di Glenn. Lui non mi raccontava molto, era uno spirito indipendente. Ho imparato più dai giornali che dalla sua voce.»
«Credo che potrebbe esserle più utile parlare con John Tannehill o Tim Boggan, signora. Loro hanno vissuto quei giorni insieme a Glenn. Io l’ho visto sì e no tre volte.»
Frances soffiò sul tè bollente. «Hai ragione, lo farò. Però mi interessa anche sapere chi è l’altro protagonista di quella vicenda che cambiò il corso della storia. Chi è Zhuang Zedong. In fondo non ci sarebbe stato Glenn senza Zhuang.»
Lui la fissò per qualche secondo, dubbioso.
Doveva parlare di sé a una persona incontrata quello stesso giorno? Poi si disse che dopotutto era la madre di Glenn, non proprio una totale sconosciuta; inoltre, Zhuang aveva sentito da subito una forte corrente di empatia tra loro, una sensazione di contatto che non provava da anni.
«Sono… anzi, ero solo un ragazzo che giocava bene a ping-pong», rispose.
«Già. E come ci sei arrivato al ping-pong?»
«In Cina tutti arrivano al ping-pong. È il nostro sport nazionale.»
«Strano.» Frances si prese il tempo per assaporare un sorso di tè. «Buono, grazie per avermelo consigliato. Strano, dicevo… Da noi è uno sport conosciuto solo da pochi appassionati. Perché da voi è così popolare?»
Zhuang bevve a sua volta e si mise comodo. Aveva capito che quella conversazione non sarebbe stata facile, né breve.
«Tutto risale a prima della nascita della nostra nazione. Sa cosa facevano Mao e Zhou Enlai mentre erano nascosti nelle grotte dei monti Jinggangshan, negli anni Trenta? Giocavano a ping-pong! Erano appassionati, soprattutto Zhou. Tanto che decisero di usare quello sport come svago per i soldati nelle pause della guerra o della Lunga Marcia che li portò al potere. In fondo che ci voleva? Procurarsi un tavolo, due racchette e una pallina fatti con materiale di recupero non era così difficile. Dopo la vittoria, il ping-pong rimase: era uno sport che tutti potevano praticare, molto coerente con l’idea di comunismo che avevano i nostri capi.»
«Adesso mi è chiaro. E tu, Zhuang, come entri in questa storia? Quando ti sei appassionato?»
Una sensazione di vertigine lo pervase. Per raccontare tutto, avrebbe dovuto tornare indietro negli anni e ripercorrere tutte le sue esperienze, sublimi e terribili. Ne aveva paura, ma forse quella poteva essere l’occasione per liberarsi di un peso che si portava dentro da decenni. Si fece forza e cominciò: «Non ricordo quando iniziai a giocare, ero troppo piccolo. Però ci misi poco a farmi notare e a quindici anni ero già nella Nazionale juniores. Inventai un modo particolare di tenere la racchetta, ispirandomi ai colpi delle arti marziali. Funzionò e diventai uno dei migliori.»
«Vincesti dei tornei internazionali?»
«Purtroppo no. A quei tempi la Cina era ancora una squadra di basso livello, anche se Zhou Enlai aveva già in mente grandi progetti per noi.»
«Zhou Enlai? Mi stupisce questa ingerenza dei vostri politici nello sport.»
«Vede, Frances, prima del 1971 la nostra Repubblica Popolare era un paese molto isolato. Solo le nazioni del blocco comunista la riconoscevano, prima fra tutte l’Unione Sovietica. Per tutti gli altri la Cina continuava a essere quella di Chiang Kai-shek, che aveva perso la guerra e si era rifugiato sull’isola di Taiwan. Eravamo esclusi dai rapporti con gran parte del mondo. Rapporti di ogni tipo: politici, economici, e anche sportivi. Non potevamo nemmeno sedere alle Nazioni Unite, per dire la cosa forse più importante. E mentre i Sovietici e i paesi comunisti dell’est Europa partecipavano alle olimpiadi, a noi questo era proibito. L’unico sport che ci permetteva di misurarci a livello internazionale era il tennis da tavolo.»
«Strana, questa differenza.»
«Era dovuta al fatto che la Federazione Internazionale di Tennis Tavolo era stata fondata da un lord inglese molto particolare, un certo Ivor Montagu. Nonostante le nobili origini, questo signore era un simpatizzante comunista e aveva fatto in modo che la sua federazione non ponesse preclusioni di alcun tipo. Fu sua la decisione di accettare la Cina Popolare.»
«Poteva farlo? Era così importante, quest’uomo?»
«Sì. Pensi che il campionato del mondo a squadre si chiama tuttora “Coppa Swaythling” in onore di sua madre.»
«Un bravo figliolo, quindi. Comincio a capire: se il tennis da tavolo era l’unico sport in cui potevate competere a livello internazionale, allora dovevate diventare i più forti.»
«Brava, Frances. Era l’unico modo di dire al mondo: “Signori, noi esistiamo!” Quando sono entrato nella Nazionale giovanile e mi sono trasferito a Pechino, Zhou stava cominciando a programmare la formazione di una squadra da mandare ai campionati mondiali. Non subito, però: dovevamo prima essere in grado di vincere. In quel momento molti di noi erano ottimi giocatori, ma ci mancava il campione, la star, direste voi. Nel ’57 capitò una specie di colpo di fortuna. Una selezione di Hong Kong venne a giocare a Pechino e io andai a vedere il torneo. Tra loro c’era un ragazzino di vent’anni, alto, secco, dai grandi occhi spauriti. Si chiamava Rong Guotuan. Nessuno ci avrebbe scommesso uno yuan, invece vinse tutte le partite. I nostri politici si diedero da fare e scoprirono che i genitori di Rong erano cinesi. Si mosse addirittura l’allora viceministro degli Esteri, che gli offrì cittadinanza, onori e denaro pur di averlo nella Nazionale che due anni dopo avrebbe partecipato ai Mondiali di Dortmund. Rong accettò, andò in Germania e vinse. Fu il primo cinese della nostra Repubblica a trionfare in un torneo internazionale.»
D’improvviso Zhuang tacque. Strinse le labbra e sollevò la tazza di tè.
«È una bella storia», disse Frances. «Perché ti sei intristito?» L’uomo posò la tazza con un gesto lento e controllato.
«Vuole sapere anche questo?»
«Se non ti fa troppo male», rispose lei, accarezzandogli dolcemente la mano.
«D’accordo.» Zhuang dovette respirare a fondo due o tre volte prima di trovare la forza per continuare. «In pochi anni eravamo diventati i più forti, quello che il Partito voleva. Nel ’59 solo Rong aveva portato a casa una medaglia d’oro, però la squadra già c’era. In quei Mondiali vincemmo anche cinque medaglie di bronzo. Forti di quei risultati e dell’accoglienza che ci fece l’ambiente internazionale del tennis da tavolo, organizzammo i giochi seguenti a Pechino, nel 1961. Conquistammo tre ori, quattro argenti e tanti bronzi. Io vinsi anche il singolo, battendo il mio compagno di squadra Li Furong. Con Li e Rong vincemmo il trofeo a squadre. La cosa si ripeté nel ’63 e nel ’65. Eravamo all’apice della gloria. Dopo quei mondiali, Rong smise di giocare a livello internazionale e divenne allenatore della squadra femminile. Il nostro allenatore, invece, era Fu Qifang. I due stavano per andare incontro a un destino comune.»
«Oh, Signore! Da come l’hai detto temo sia accaduto qualcosa di tragico.»
«Sì, Frances. E nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginarlo, in quegli anni di successi. A ogni ritorno dai Mondiali venivamo accolti da trionfatori. Mao e Zhou seguivano le nostre partite alla radio e ci invitavano a cene sontuose nella Grande Sala del Popolo. Ne ricavammo gloria, il miglior cibo di tutta la Cina e più denaro di quanto avessimo mai sognato. Vivevamo per giocare, non avevamo altri pensieri. Tutto questo ci sembrava giusto: eravamo gli unici cinesi a essere ai vertici mondiali. Eravamo la bandiera della nazione, gli emblemi del Comunismo. Non ci rendemmo conto che le cose stavano cambiando finché non ne fummo travolti. Nel ’66 iniziò quella che venne chiamata “Rivoluzione Culturale”. Arrivarono le Guardie Rosse e tutti gli sport divennero il male assoluto.»
«Perché? Non capisco, eravate l’emblema della Cina nel mondo…»
«Perché vincere venne considerato un sintomo di individualismo borghese che andava contro il popolo e la rivoluzione. Fino al giorno prima ci avevano mandato a vincere per la Cina, dal giorno dopo ci accusarono di essere cattivi patrioti, un covo di spie e di traditori, servi del capitalismo. Eravamo diventati dei parassiti che godevano di immensi privilegi a spese del popolo. Tutti quelli che avevano vinto una medaglia nelle gare internazionali avrebbero dovuto fare autocritica. A correre il maggior pericolo erano quelli di provenienza straniera. Rong Guotuan era nato a Hong Kong, Fu Qifang vi aveva vissuto per parecchi anni. Rong fece anche un gesto per tutti noi, che solo dopo capimmo essere stato un grosso errore: scrisse una lettera alla Commissione Sportiva Nazionale, nella quale chiedeva che la squadra potesse partecipare ai mondiali del ’67 in Svezia. Ancora non ci eravamo resi conto di quanto fosse grave la situazione.»
Zhuang si fermò. Aveva bisogno di riordinare i pensieri, di capire cosa avrebbe avuto la forza di dire. Frances lo fissava immobile, in attesa.
«Di lì a poco cominciarono gli interrogatori e le violenze. Io avevo paura, e non solo per me. Nel ’59 avevo conosciuto una ragazza, Bao Huiqiao. Lei era una pianista, molto brava, ma soprattutto una persona dolcissima. Il primo fu solo un incontro occasionale, ma quando la rividi, tre anni dopo, me ne innamorai. Fu un periodo felice, ci amavamo e avevamo successo, lei nella musica, io nello sport. Nel gennaio del ’68, in piena Rivoluzione Culturale, decidemmo di sposarci, per sentirci più uniti in quel periodo tremendo. Fu un matrimonio molto intimo, nel collegio annesso al Conservatorio di Pechino. Non so se sposarci fu una buona idea. Quando la nostra casa venne devastata, per fortuna non c’eravamo, ma temetti per la sua vita. Suonare il piano era considerato borghese e controrivoluzionario, come giocare a ping-pong. Il peggio, però, doveva ancora venire. Pochi giorni dopo mi arrestarono insieme ai compagni di squadra. Ci interrogarono e ci torturarono uno dopo l’altro. Bastava una sciocchezza per essere messi sotto accusa. Alcuni di noi non riuscirono a resistere e crollarono, chi in un modo, chi in un altro. Il nostro allenatore, Fu Qifang, si impiccò nell’aprile del ’68, Rong due mesi dopo. Ancora oggi c’è chi non crede alla versione del suicidio. La sua allenatrice in seconda, Qiu Zhonghui, lo vide subito dopo la morte, già disteso a terra e coperto da un lenzuolo. Mi confidò che era riuscita a esaminare il corpo e non aveva visto ecchimosi, né segni sul collo. Anch’io ho avuto a lungo dei dubbi. Rong era diventato taciturno e triste, ma non era tipo da farla finita, però gli trovarono in tasca un biglietto d’addio.»
Zhuang aveva visto quel foglio: era la scrittura di Rong, ne era certo, ma chi poteva dire in quali condizioni fosse stato scritto? Ricordava esattamente ogni parola: “Non sono una spia. Per favore non sospettatemi. Vi ho delusi. Tengo alla mia reputazione più che alla mia vita.”
Frances lo riportò al presente: «Povero caro, hai visto soffrire tutti i tuoi amici. Per fortuna tu ne sei uscito.»
Zhuang si strinse nelle spalle. «Sì, ma non mi va di parlarne», disse, e si alzò senza finire il suo tè. «Torniamo ai pullman, credo sia ora di rientrare a Pechino.»
Mentre usciva dal locale, Zhuang rabbrividì, e non per il vento gelido che soffiava dalla Mongolia. Il rimorso per quel che aveva fatto in quei giorni lo turbava ancora, benché avesse cercato di seppellirlo sotto mille giustificazioni. Lui, campione del mondo dello sport simbolo della Cina, aveva frequentato le alte sfere del partito e aveva saputo come era nato tutto quel caos. Era stata una mossa politica per rafforzare il presidente Mao ed eliminare i vecchi leader che avrebbero potuto limitarne il potere, primo tra tutti Liu Shaoqi. Zhou Enlai, pure in posizione pericolosa, aveva saputo come destreggiarsi con infinita prudenza e diplomazia, ma gli altri avevano dovuto soccombere al gruppo dei nuovi, tra i quali dominava la moglie di Mao, Jiang Qing. Ben presto Zhuang aveva capito che per salvare la propria vita e quella della sua famiglia avrebbe dovuto fare delle scelte.
A distanza di quasi quarant’anni, non voleva certo parlarne a un’anziana signora americana in vacanza.
Poteva forse dirle di aver accusato He Long, il loro primo mentore e protettore? Poteva rivelarle di essersi schierato pubblicamente con Jiang Qing? Frances non avrebbe capito, la realtà degli americani era troppo lontana. Come spiegarle che lui non aveva vissuto quella scelta come un tradimento, ma come una prova di fedeltà alla Nazione e al Partito? La fiducia nel presidente Mao veniva prima della solidarietà con i compagni di squadra: ecco come stavano le cose a quei tempi.
E adesso? Zhuang non voleva saperlo. Ricacciò dentro di sé quei fantasmi e si diresse a passo spedito verso l’autobus dei suoi connazionali. Per quel giorno ne aveva avuto abbastanza degli americani.
La pace viaggia in autobus di Renato Ghezzi, Le Mezzelane Casa Editrice, Collana Historica, Pagine 172, Prezzo 15€
Renato Ghezzi è nato a Milano nel 1957 e ha vissuto sempre nell’hinterland milanese. Ingegnere elettronico, dopo una carriera nelle telecomunicazioni, la abbandona per dedicarsi alla sua vera passione: la scrittura e il lavoro editoriale. Dal 2014 pubblica racconti e romanzi. Tra le sue passioni, i viaggi e la danza storica dei periodi rinascimentale e Regency.