Nei due decenni che vanno dal 1970 al 1990 le produzioni giapponesi conquistarono il mercato mondiale, ed europeo in particolare, con centinaia di serie a cartoni animati che sono rimaste nell’immaginario collettivo e nel cuore di almeno due generazioni di appassionati. Introdotti spesso da sigle accattivanti che ancora oggi sentiamo canticchiare dai bambini di cinquant’anni, quei cartoni veicolavano valori e messaggi positivi, di speranza, di lotta per la giustizia, di difesa del più debole e di amore per la natura e gli animali. E poi, parliamoci chiaro: che mondo sarebbe oggi senza l’alabarda spaziale di Goldrake, i colpi mortali dell’Uomo Tigre e le caprette saltellanti di Heidi?
In realtà, le creazioni animate nipponiche sono state talmente numerose da toccare praticamente ogni tema dello scibile umano. Abbondano, quindi, le serie dedicate allo sport, che spesso ritraggono atleti con abilità sovrannaturali e dai colpi impossibili che sfidano le più elementari leggi della fisica. Il calcio poteva mancare? No, non poteva. Per questo, ad un certo punto, arrivano i Superboys!
Il primo anime dedicato al calcio
Il primo anime dedicato al calcio è 赤き血のイレブン, Akakichi no Irebun, letteralmente “Gli undici rosso sangue”, trasmesso dalle televisioni italiane a partire dal 1980 con il titolo di Arrivano i Superboys. In realtà, la serie fu realizzata nel biennio 1970-’71 come trasposizione animata del fumetto di Ikki Kajiwara, mangaka geniale ma dalla vita turbolenta, creatore anche de L’Uomo Tigre e di Rocky Joe, sempre dedicati allo sport, rispettivamente al wrestling e al pugilato.
Shingo Tamai
In 52 episodi di 24 minuti ciascuno, il cartone narra le vicende di Shingo Tamai, studente irrequieto, indisciplinato e arrogante del liceo Shinsei, nella periferia di Tokyo. Il nuovo, arcigno professore di ginnastica, l’ex portiere della nazionale giapponese Tempei Matzuki, vuole insegnare il calcio ai suoi allievi per poter disputare tornei di alto livello e dare lustro alla scuola. Dopo un primo periodo in cui le forti personalità dei due personaggi si scontrano anche aspramente, alla fine l’allenatore riesce a plasmare il grande talento di Shingo, facendone un potenziale campione. Restano nella memoria le sfide impossibili con i fuoriclasse delle altre scuole, come Jan Misugi, un attaccante dal tiro potentissimo, o Kamioka Go, un superportiere che si allena a parare i tiri bendato. Tra sfide combattutissime ma sempre leali, tiri che hanno del miracoloso e pubblico sempre numeroso sugli spalti pur trattandosi di tornei giovanili, i migliori giocatori, capitanati proprio da Tamai, affronteranno la squadra brasiliana del fuoriclasse Ken Santos e allenata (udite udite!) da un ex campione che risponde al nome di Belè, chiaramente ispirato al compianto Edson Arantes Do Nascimento.
La sigla italiana
È interessante notare che per la sigla dell’edizione italiana fu scelta la canzone Goal eseguita dagli Eurokids, che era stata l’inno degli europei del 1980 disputatisi proprio in Italia.
I temi
La storia degli undici rosso sangue, così chiamati in riferimento al colore della loro maglia da gioco, è la classica epopea di giovani atleti che patiscono le prove più impensabili per realizzare il loro sogno. Fango e pioggia, lacrime e determinazione: il messaggio che giunge forte e chiaro è che per emergere non basta avere talento, ma è necessario soffrire, prepararsi come per andare in guerra.
La storia è ambientata a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70
È un periodo di boom economico per il Giappone. Nell’immensa periferia di Tokyo crescono nuovi quartieri come funghi, territorio ideale perché si sviluppi il carattere ribelle e anarchico del protagonista, Shingo Tamai. Classico bullo di periferia, attaccabrighe, antipatico e scioperato, il ragazzo scoprirà nel calcio una strada per affermare la propria personalità e un obiettivo da consacrare: diventare un forte giocatore professionista. In ossequio alla tradizione che vuole orfani buona parte dei protagonisti dei manga (in realtà, quella generazione di lettori giapponesi si rispecchiava molto nella condizione degli orfani, essendo essi stessi i figli delle vittime di Nagasaki e di Hiroshima), anche Shingo scoprirà di essere stato adottato dai coniugi Tamai quando era ancora in fasce. Orfano è anche il suo rivale, il nippo-brasiliano Ken Santos, un giovane crack che si reca in Giappone per cercare sua madre. La speranza del Brasile è allenato da un ex campione di nome Belè (Pelè, in realtà), che per rinforzargli le caviglie gli passa addirittura sopra con le ruote dell’automobile. Certo, nella narrazione non mancano elementi fin troppo fantasiosi: tiri dagli effetti che sfidano pericolosamente le leggi della fisica; palloni che sfondano la rete e si conficcano nel muro, continuando a ruotare; formazioni con troppi attaccanti e nessuno a difendere; interventi che hanno più delle arti marziali che del calcio. Tuttavia, le partite rimangono nel complesso godibili, è buona la percezione del pathos dei tifosi sugli spalti e l’atmosfera in cui si muovono i personaggi è credibile. Inoltre, è apprezzabile la ricostruzione della società giapponese del periodo, e grande attenzione è dedicata alla caratterizzazione psicologica dei personaggi principali.
Ispirato dai brillanti risultati della nazionale nipponica alle Olimpiadi
Analogamente a quanto era successo per un altro anime dedicato allo sport, Mimì e la nazionale di pallavolo (titolo originale: Attack number 1), che era stato ispirato dalla medaglia d’oro vinta dalla nazionale femminile del Sol Levante a Tokyo ’64 (XVIII Olimpiade) e dai metodi di allenamento sadici del coach Hirofumi Daimatsu, detto appunto il Demone, anche la storia di Shingo Tamai e dei suoi compagni di squadra era figlia dell’interesse per uno sport, il calcio, esploso in Giappone dopo degli apprezzabili risultati conseguiti ai giochi olimpici.
Infatti, il 14 ottobre 1964, al Parco Olimpico di Komazawa, a Tokyo, la nazionale nipponica ottenne una prestigiosa vittoria contro l’Argentina per 3-2 nel girone di qualificazione, uscendo tuttavia ai quarti contro la Cecoslavacchia. Questa insperata impresa contro la nazionale albiceleste fu accolta con clamore in patria, dove il calcio era pressoché sconosciuto alla maggioranza degli sportivi.
Quattro anni dopo, a Messico ’68, il Giappone passò da seconda, dietro la Spagna, il proibitivo girone che includeva anche Brasile e Nigeria. In particolare, i nipponici batterono 3-1 la compagine africana, pareggiando per 1-1 e 0-0 contro i carioca e le furie rosse. Arrivò poi un’altra lusinghiera vittoria contro la Francia per 3-1 ai quarti, prima della cocente sconfitta per 5-0 contro la forte Ungheria (poi medaglia d’oro) in semifinale. La finalina per la medaglia di bronzo vide il Giappone avere la meglio sul Messico per 2-0, con doppietta di Kamamoto.
Ce n’era abbastanza, insomma, per tirarne fuori un manga e spiegare ai giapponesi quello strano sport in cui si prende a calci un pallone, tanto in voga in Europa e in America Meridionale.
Dettmar Cramer
Il vero e proprio miracolo calcistico giapponese ha un nome e cognome: Dettmar Cramer. L’allenatore tedesco, che in seguito avrebbe conquistato due Coppe dei Campioni consecutive (1975 e 1976) e la Coppa Intercontinentale del 1976 alla guida del Bayern Monaco, si recò in Giappone nel 1960. Per quattro anni allenò la nazionale del Sol Levante, prima come vice e poi come D.T. ma, soprattutto, contribuì enormemente alla crescita qualitativa del calcio nel paese formando gli allenatori e ispirando la creazione delle formazioni giovanili. Ancora oggi è ritenuto “il padre del calcio giapponese”, ed è suo il merito se i calciatori giapponesi hanno cominciato a vestire le maglie agognate delle compagini europee e a calcare prati prestigiosi. L’allenatore giramondo (allenò anche negli USA, in Arabia, in Egitto e in Malaysia) è scomparso in Baviera nel 1995, a 90 anni.
I punti di contatto con la realtà
Nel primo episodio di Arrivano i Superboys, il professore di educazione fisica Tempei Matsuki racconta di essere stato il portiere della nazionale nipponica sotto la guida di Cramer, e di aver giocato contro l’Argentina a Tokyo ’64. Dal coach tedesco ha appreso le nozioni di tattica della squadra e gli specifici allenamenti per migliorare le qualità tecniche dei singoli.
Il liceo Shinsei, invece, è un riferimento neanche tanto velato alla storia dell’Urawa Minami, una scuola superiore che nel 1969, soltanto 6 anni dopo la sua fondazione, riuscì a vincere tutti i trofei scolastici legati al calcio in Giappone. Una sorta di triplete, fatte le debite proporzioni. Probabilmente, la stessa figura di Shingo Tamai è ispirata alla figura di un giovane attaccante del liceo Urawa Minami.
Un anime da riscoprire
Insomma, anche se per certi versi ancora ingenuo e legato a un certo modo tutto asiatico di narrare per immagini, Arrivano i Superboys è senz’altro un anime da riscoprire, per le sue atmosfere cupe e seriose, per la determinazione dei suoi protagonisti, per il fascino della trama e per quel modo di avvicinarsi al calcio, e allo sport in generale, con rispetto e umiltà. Dopo diversi anni arriverà Captain Tsubasa, ovvero Holly & Benji, con il suo calcio solare fatto di sorrisi generosi e di campi infiniti dove non esiste la fatica, né il fango.
Chissà cosa ne penserebbe Dettmar Cramer…