Chi nasceva in periferia iniziava a frequentare la strada da molto piccolo.
A dieci anni, quelli nati come me durante il boom economico italiano erano già in strada, con il pallone tra i piedi, a rompere scarpe su scarpe comprate di volta in volta alla Standa del quartiere, il primo centro commerciale.
Certo non erano gli scarpini che oggi trovi in ogni negozio di sport a prezzi quasi inaccessibili, ma normali scarpe di pezza, bianche o blu, da strofinare per bene sul campo di terra se lo vuoi rendere in parte regolare con tanto di linee laterali, area approssimativa e i famigerati tre cerchi, per il centrocampo, per i calci di rigore.
La maglia era sempre la stessa, rossa con i bordi gialli, i colori che stavano pian piano invadendo cuore e sentimenti da quando, quel 16 aprile 1967, ebbi il mio primo appuntamento con la Roma, la prima tappa della destinazione Curva Sud.
Le regole del campetto
In periferia a quel tempo c’erano delle regole da rispettare.
Non solo quelle della buona educazione che una sana famiglia di operai insegnava ai propri figli, ma anche quelle che dovevi per forza di cose imparare e rispettare per essere sempre all’altezza di ogni di situazione, bella o brutta che potesse essere.
Al tempo Cinecittà era tutta un cantiere e nel cielo spuntava quasi ogni giorno una gru nuova.
Il vantaggio era che tra tanti cantieri, un campo dove giocare a pallone c’era sempre anche se spesso noi ragazzetti lo trovavamo occupato dai grandi.
Ecco che torniamo alle regole.
La più importante era quella legata al rispetto dei grandi.
Se loro stavano giocando non potevi occupare alcun posto su quel pezzo di terra, dovevi aspettare che finivano la partita a meno che non eri già un piccolo calciatore in erba che sapeva dare del tu al pallone.
Solo in quel caso potevi essere “acquistato” dai grandi per giocare qualche partita o addirittura stare in campo per qualche sfida tra zone diverse di Cinecittà.
A volte, invece poteva capitare di giocare in porta perché non avevano, o non volevano, sacrificarsi a stare fermi tra due ammassi di sassi, o cartelle di scuola, cha altro non erano i pali di porta talmente fantomatica che la traversa era “a piacere”, variabile secondo l’altezza del portiere.
I racconti del bar
Al primo buio ci si ritrovava poi tutti davanti al bar di quartiere, per noi quello di Costantino ed Eugenio, laziali convinti, ottimi bersagli di scherni e azioni goliardiche.
L’argomento era sempre lo stesso, il calcio, la Roma, l’Olimpico.
I grandi non mancavano mai all’Olimpico per una partita giocata dalla maggica, termine più che appropriato per la Roma di allora che compiva imprese epocali pareggiando di cuore con gli squadroni del nord.
Noi, piccoli, ascoltavamo in religioso silenzio ogni aneddoto e così, giorno dopo giorno, il tifo diventava un sogno da perseguire al più presto.
Voglia di stadio
Da quelle parabole calcistiche non poteva che nascere la voglia di andare allo stadio ogni volta che la Roma giocava in casa.
Mio padre era romanista di grande fede, ma era anche marito e certo non poteva essere sempre evasivo davanti alle richieste di una moglie alla quale naturalmente la domenica piaceva uscire, vuoi per una passeggiata in città o per una gita a Ostia o a Frascati.
Insomma, non potevo sempre contare su di lui per essere portato allo stadio.
Rispetto ai più grandi che andavano sempre all’Olimpico, a me non restava che piazzarmi davanti alla radio ad ascoltare prima Campo de’ fiori con Isa Di Marzio e il mito Orazio Pennacchioni, e poi i secondi tempi della serie A con Ezio Luzi, Enrico Ameri e Sandro Ciotti, in altre parole Tutto il calcio, minuto per minuto.
Le regole, però, qualche volta erano di aiuto.
La mia zona era tutta un agglomerato di palazzoni di otto piani.
Ci si conosceva tutti e tutti sapevano chi erano i tuoi genitori; oggi può sembrare surreale, ma allora era così.
Tante famiglie, tante mamme giovani, quasi tutte con la stessa vita, le stesse frequentazioni quotidiane del mercato rionale dove una parola tirava l’altra. Parole che continuavano nel tragitto verso casa e poi da balcone a balcone magari e che facevano nascere amicizie vere.
Tante famiglie per le quali avere due figli era praticamente la normalità, ma c’era un particolare però.
Accadeva infatti che una mamma diventava automaticamente la mamma di tutti gli altri amici dei figli, così che ognuna aveva il lasciapassare per intervenire se un ragazzo, poco importa di chi fosse figlio, commetteva qualcosa che non andava bene.
Un solo era il grido di allarme per noi “ribelli in crescita”, poche ma esaurienti parole dette nel verbo romano, ti inchiodavano, oggi bellissimo ricordo: mò lo dico a tu madre, quello che hai combinato!
E poi la Roma
Ma che c’entra con la Roma?
C’entra perché tutto era legato a un gioco d’incontri, rapporti tra famiglie, educazione e valori sociali, che oggi purtroppo latitano.
Mia madre, come le altre, si rivolgeva alla mamma di uno dei ragazzi più grandicelli per chiederle se quella prossima domenica il proprio figliolo poteva portare anche me, ancora troppo piccolo per andare autonomamente allo stadio.
Tra l’altro con i mezzi pubblici era veramente un’impresa recarsi da Cinecittà all’Olimpico.
La risposta da mamma a mamma è stata sempre affermativa, le buone relazioni sociali permettevano questo e altro.
Il rapporto tra due differenti età era ottimo, si cresceva insieme e non c’erano allarmismi tali da impedire l’evento calcistico domenicale, almeno per una gran parte delle partite in casa della Roma, allora Rometta, quelle più toste non si poteva proprio, divieto assoluto.
Meglio di niente, almeno per questo primo periodo adolescenziale
Il prezzo da pagare in famiglia?
Era alto, almeno per me: andare bene a scuola, fare sempre il bravo ragazzo educato, aiutare le persone del palazzo in caso di necessità e via dicendo.
Le domeniche allo stadio con mio padre le ricordo appena, ma ricordo invece bene i nomi dei ragazzi, miei amici fraterni con i quali si formava un gruppo indipendente di tifosi.
La bandiera
Avere una vera bandiera non era più rimandabile.
Non più quella di plastica che nenache fosse un quadro d’autore capeggiava sul letto della mia stanza.
La bandiera doveva essere grande e bella, da sventolare ovunque, dal balcone di casa, dal finestrino del tram e, ovviamente, dagli spalti della Curva Sud.
Sotto i portici di viale Don Bosco c’era una merceria ben fornita.
Ricordo bene il bancone alto e lungo e, alle spalle, una svariata rassegna di stoffe, misto seta, di qualsivoglia colore.
A me servivano soltanto due colori, un metro di giallo e un metro di rosso.
Le misure, quasi sempre abbondanti, si prendevano con il metro di legno, tipica attrezzatura di quei tempi.
A cucirla la sarta del palazzo. C’è sempre stata una sarta dentro ogni palazzo, quasi un’istituzione, insieme all’infermiera addetta alle punture. In mancanza di queste due istituzionali figure, questi ruoli li ricopriva la moglie del portiere.
Bisognava racimolare i soldi per comprare il necessario.
Il pomeriggio, davanti scuola, allestivo per terra una bancarella, vendevo giornaletti e qualche giocattolo non piu’ utilizzabile.
Qualche mamma comprava sempre qualcosa.
C’era bisogno ancora di altro.
L’asta, la stecca alta circa due metri si comprava dal negozio di materiale elettrico, la stessa che si usava per fare le cerbottane – se non sapete cosa sono, credetemi, vi siete persi tanto – la mitica cannuccia di colore giallo, solo piu’ larga di diametro.
Pochi attimi nelle mani della sarta e via, la bandiera era bella e cucita, pronta per il suo destino in Curva Sud.
Destinazione Curva Sud
Detto così sembra nulla, ma andare allo stadio era un rito.
Si partiva la domenica mattina intorno alle dieci dal capolinea del tram Cinecittà – Termini, la bandiera in una mano e nell’altra il sacchetto di plastica con i due soliti panini imbottiti come non mai e l’onnipresente mela.
Il biglietto del tram costava 50 lire, come quello del bus; con il bigliettaio in vettura, impensabile viaggiare gratis.
Alla Stazione Termini si cambiava per salire sull’autobus, il 67, più che altro una carica per conquistare il finestrino da dove far sventolare la bandiera giallorossa.
Destinazione Curva Sud, il posto più bello, dove dal vetro potevi vedere da vicino i calciatori.
Allora i botteghini per fare il biglietto erano proprio accanto la Curva, i soldi li aveva in tasca il più grande che mi accompagnava.
La fila, il batticuore, l’ansia di entrare e poi di corsa dentro l’Olimpico.
Nessuno scalino da salire, si entrava nel parterre, gli occhi ti si sgranavano nel vedere tutta quella gente sopra gli spalti e ghià al primo sguardo sentivi l’aria della Sud; meno famiglie e più giovani pronti a urlare a squarciagola l’amore per la Roma.
E poi la corsa verso il vetro da dove, se riuscivi a conquistare il posto, eri a pochi metri dai tuoi calciatori per cercare di catturarne uno sguardo, un ammiccamento così da poter raccontare il giorno dopo a scuola: Capello mi ha guardato! Mi ha persino salutato!
Accanto non c’era il “fratello maggiore” che ti teneva per mano, sempre con l’occhio vispo a vedere dove andavo, cosa facevo e combinavo: ero libero! C’era complicità in ogni gesto o momento particolare, importante era non raccontare nulla dopo a casa.
Curva Sud. 11 maggio 1969
È un flashback.
La mia prima volta in Curva Sud senza genitore.
Manca ancora molto tempo all’inizio partita ma non fa niente, sono tra i tifosi, tra quei ragazzi che nel tempo avrò modo di conoscere meglio, per il momento mi accontento di poter sventolare la mia bandiera.
Il tempo passa e la gioia sale, sarà così per tutti i miei trascorsi in Curva Sud.
Alle ore 16,00 scende in campo la Roma del portiere Pierluigi Pizzaballa, di Fabio Capello, di Fausto Landini.
Contro di noi, come per destino, di nuovo l’Atalanta proprio come la mia prima volta assoluta, quella con mio padre.
Neanche il tempo di iniziare e la Roma è in vantaggio con Fabio Capello.
Stavolta sarà un risultato bello tondo; la Roma batte i bergamaschi 4 – 1.
Che domenica!
Oggi sembra proprio solo il giorno dopo.