Middlesbrough, 19 luglio 1966, ore 20.30: Italia e Corea del Nord scendono in campo.
È il giorno del giudizio per Edmondo Fabbri.
Nella prima mezz’ora gli attaccanti italiani falliscono almeno tre clamorose palle-gol; brutto segno. Poi al 37’ il ginocchio di Bulgarelli cede di schianto e il giocatore è costretto a uscire. Non esistono ancora le sostituzioni e gli azzurri rimangono in dieci. Passano quattro minuti e al 41’ il dentista Pak Doo-Ik trafigge Albertosi con un diagonale da fuori area. Nel secondo tempo l’Italia spreca ancora occasioni su occasioni per raggiungere quel pareggio che ci qualificherebbe e così al fischio di chiusura la frittata è fatta. Siamo eliminati dai Campionati del mondo al primo turno.
È “la Corea”. Una sconfitta che travalica i confini calcistici per diventare un tòpos della memoria collettiva del nostro Paese e va a fare il paio con la disfatta di Caporetto.
Nella spedizione italiana è il panico totale.
Le critiche della stampa sono subito feroci e si preannunciano forti contestazioni dei tifosi.
Nonostante il rientro in Italia venga spostato a Genova, considerata più periferica, una folla di tifosi inferociti accoglie gli azzurri a suon di pomodori e ortaggi vari. Di quella notte resta indelebile una foto in bianco e nero con Fabbri appena sceso dall’aereo. Ha un’espressione sconvolta, impaurita, non sa cosa lo aspetta, sembra il reduce di una catastrofe.
Un uomo solo
In quei giorni Fabbri è un uomo solo, vede nemici dovunque e si mette in testa di essere vittima di un complotto ordito dai medici della nazionale, che avrebbero drogato i giocatori con delle misteriose fialette rosa. Le fialette non sono un’invenzione, solo che erano normalissimo ricostituente, ma Fabbri è sordo alla ragione e cieco all’evidenza e va avanti a testa bassa contro i mulini a vento. Qualcosa dentro di lui ha fatto crack. Se amate i romanzi del grande Henry James sapete che sto parlando di quelle crepe che si aprono una volta per tutte nell’animo di tanti protagonisti dei suoi libri. Sono come i tagli dei quadri di Fontana; ferite nette, definitive, che non si rimargineranno mai più.
Fabbri per alcuni mesi si barrica letteralmente nella sua casa di Castel Bolognese per paura di incontrare giornalisti o tifosi.
Anni dopo, con il distacco del tempo, tutta quella vicenda verrà rivista con il giusto equilibrio
Intanto scopriremo che il famoso Pak Doo-Ik non si era mai sognato di fare il dentista. A parte questo, lo stesso Fabbri ammetterà di essere arrivato alla panchina azzurra troppo giovane e senza alcuna esperienza internazionale. E poi diciamolo forte e chiaro: niente è più aleatorio del calcio e quella con la Corea era una partita maledetta. Sarebbe bastato un gol per cambiare tutti i giudizi e le sentenze successive, e perché il destino di quella partita, della nazionale e del suo allenatore fosse diverso.
Fatto sta che dopo la Corea tutti scansavano Fabbri nemmeno fosse un cane rognoso
A farlo riemergere dall’oblio fu il Torino che lo richiamò in panchina. Con i granata Edmondo Fabbri tornò a dimostrare che sapeva di calcio e che era un signor allenatore, vincendo la Coppa Italia nel 1968 e arrivando quarto in campionato, miglior piazzamento del Torino dai tempi della sciagura di Superga.
Poi il trasferimento al Bologna e nuova Coppa Italia. Quegli anni furono un parziale riscatto professionale, ma il coro di sfottò «Corea Corea» continuò a perseguitarlo per parecchio tempo negli stadi italiani.
Edmondo Fabbri ha allenato fino agli inizi degli anni Ottanta in varie piazze. Quando nessuno lo chiamava se ne stava a Castel Bolognese a coltivare le sue vigne. L’impressione che dava era quella di una persona per bene, di un signore, ma anche di un uomo bruciato dentro.
Una ferita mai rimarginata
Edmondo Fabbri muore l’8 luglio del 1995. Ai funerali partecipano molti suoi ex giocatori.
Tra i presenti c’è anche Arrigo Sacchi a cui uno dei figli di Fabbri dice parole che sono la migliore conclusione per questa storia: «Anche a distanza di tanti anni, papà non è mai riuscito a superare il trauma della Corea».