Ombre lunghe della sera, vapori di nebbia che si alzano da terra, un uccello notturno che passa veloce e disperde il suo richiamo lugubre in lontananza, mentre un castello, che rimanda a fasti passati, ma che somiglia sinistramente ad una clinica psichiatrica, si staglia sullo sfondo, circondato da poliziotti armati. Il tutto avvolto in un’atmosfera di ineluttabile disfatta, da ultimi giorni dell’Impero. È questa la cornice attorno al ritiro della Nazionale italiana di calcio alla vigilia del mondiale tedesco del 1974, nella descrizione che ne fa Giovanni Arpino in uno dei suoi romanzi più famosi, Azzurro Tenebra, del 1977.
Un intellettuale prestato al calcio
Giovanni Arpino, in quell’inizio d’estate del ’74, non è soltanto l’inviato di punta della pagina sportiva del quotidiano La Stampa di Torino, il principe dei giornalisti sportivi dell’epoca, insieme a Gianni Brera.
È anche uno scrittore di successo, vincitore del Premio Strega nel 1964, alle spalle decine tra romanzi, racconti e raccolte di poesie, scoperto da Elio Vittorini e cresciuto all’ombra della Scuola Einaudiana dei primi anni del secondo dopoguerra, al pari di Fenoglio e Calvino. Un intellettuale prestato al calcio, anzi, alla Sferomachìa, come raramente capita oggi di vedere.
Al Mondiale del 1974, l’Italia si presenta come una delle favorite
Siamo vicecampioni del mondo e pochi mesi prima una rete di Capello ci ha regalato il primo storico successo a Wembley contro l’Inghilterra. Zoff non prende gol da oltre mille minuti e in Germania i tantissimi emigrati aspettano una Nazionale che possa tornare ad alzare la Coppa del Mondo dopo l’ultima volta a Parigi nel 1938, un’era geologica prima. In realtà, quella è una squadra fisicamente e moralmente a pezzi, con i “messicani” a fine corsa e uno spogliatoio spaccato in due, tra il blocco delle grandi squadre del nord e quello della Lazio campione d’Italia. Una rottura che si manifesta chiaramente nel famoso gesto con cui Chinaglia, sostituito da Anastasi al minuto sessantanove del sofferto match d’esordio contro il non irresistibile Haiti, manda a quel paese il Commissario Tecnico, Ferruccio Valcareggi.
Azzurro Tenebra
In Azzurro Tenebra, Giovanni Arpino utilizza il calcio e quella Nazionale attraversata da divisioni fratricide come metafora dell’Italia degli anni settanta, un paese frantumato come uno specchio rotto, sospeso tra bombe, repressione e voglie di golpe.
Un paese popolato da Jene e Belle Gioie e dove gli uomini, con la U maiuscola, si contano sulle dita di una mano. Soltanto tre i personaggi positivi del romanzo, Giacinto Facchetti, “Mon Capitaine” <<lo sguardo limpido di celesti distanze, e quel sorriso gentile, chiuso agli angoli della bocca da due brevi rughe incise>>, al cui figlio Gianfelice, nato pochi mesi dopo la disfatta tedesca, Arpino fece da padrino di battesimo; Dino Zoff, alias San Dino e, soprattutto, il Vecio, Enzo Berzot, che in quel disgraziato mondiale era il vice di Valcareggi.
Il Vecio
Di Bearzot Giovanni Arpino era grande amico ed estimatore, lo considerava un italiano atipico, come tutti gli italiani di frontiera. E proprio Bearzot fu la pietra dello scandalo che provocò il famoso litigio tra lo scrittore piemontese e Brera, il Grangiuàn del romanzo, come ricorda Gigi Garanzini, biografo ufficiale di Bearzot, in quel gioiellino che è Il romanzo del Vecio.
Giovanni Arpino era un bearzottiano della prima ora, mentre Brera, teorico del catenaccio, considerava il tecnico friulano un eretico, a causa della sua predilezione per il calcio totale olandese ed i giocatori eclettici. A nulla valse la mediazione dello stesso Bearzot, i due rimasero in ottimi rapporti con lui, ma quella diatriba, fondata su un puntiglio apparentemente incomprensibile per due personalità di quel livello, se la portarono nella tomba.
Calcio o calcio moderno?
In Azzurro Tenebra si possono scorgere anche le avvisaglie della degenerazione del calcio moderno.
Quelli del 1974 sono i primi mondiali di Joao Havelange. Con lui alla presidenza della Fifa ebbe inizio la commercializzazione sempre più spinta del “prodotto” calcio. Una rivoluzione antropologica, per usare un’espressione di un altro intellettuale con la passione per il football, Pier Paolo Pasolini, che portava con sé i frutti avvelenati del divismo e delle pressioni sempre più esasperate che gli enormi interessi economici rendevano inevitabili.
Come Arpino fa dire al Vecio: “Se penso quando giocavo io, e non era un secolo fa. Solo due generazioni, anzi, due leve, prima di questi divetti. Tutto era più rozzo, c’erano i nervi ma contavano come la pancia, la voglia, l’ignoranza. Te l’ho detta di quel portiere che dormiva nella mia camera e di notte si allenava al buio a far la firma per essere svelto con gli autografi? Le bestie che eravamo. Però uomini”. Oppure, la paradossale scena, a metà strada tra l’assalto ai forni di manzoniana memoria e la rotta di Caporetto, delle cravatte e delle forme di grana lanciate dalle finestre del castello in cui è asserragliata la Nazionale, per ammansire i tifosi inferociti dopo la sconfitta contro la Polonia di Lato e Deyna, che sancisce la nostra ingloriosa eliminazione al primo turno.
Ma la parte, forse, più bella del romanzo è il racconto delle partite
Un turbinio di gesti atletici, immagini, colori, suoni, che sembrano trascinare il lettore dentro la bolgia del Neckarstadion, lo stadio di Stoccarda che ospitò i match dell’Italia.
Arpino ha la capacità, propria solo ai grandi scrittori, di isolare, dentro al caos di un incontro di calcio, circondati e minacciati dalla folla dei tifosi, un’indistinta onda nera che muggisce carica di rabbia e di odio, i caratteri dei singoli individui, strappandoli dal quadro d’insieme e presentandoli come singole figure tridimensionali.
“Così Arp vide il Bomber (Gigi Riva, n.d.a.). Schiumava di queste impotenze nei pochi centimetri della sua verde porzione di scacchiera. Ruotò, il Bomber, dilaniandosi nel vuoto. Perse palla e cadde: furono quintali di malinconia quelli che in lui cercarono, tra il silenzio del Neckarstadion, di rimettersi in piedi: perché è lì, quando ti devi rialzare, che ti azzanna la solitudine”.
Una potenza descrittiva che, rapportata ad un grande evento sportivo, si ritrova forse solo nel racconto che Norman Mailer fa dell’epocale Rumble in the jungle, il leggendario incontro di boxe tra Alì e Foreman a Kinshasa, sempre in quel fatidico 1974.
“Il pallone permette di dire il novanta per cento della verità.
E il dieci restante?
Carità umana, solo carità”