“E tu chi sei?” Glielo chiesi così, in maniera diretta. Lei era seduta su un pallone da basket ed era ferma da quando avevo iniziato l’allenamento del mio gruppo di ragazzi. Volevo capire cosa ci facesse lì.
Novembre 2020
Erano i primi giorni di novembre del 2020 e quello era il primo incontro che facevo all’aperto sul campetto da basket della parrocchia, dopo che ci avevano vietato di continuare le attività sportive al chiuso della palestra a causa di quel caro virus chiamato Covid-19.
Si richiudeva tutto di nuovo, ma potevamo fare attività all’aperto; per questo quel giorno io con un gruppo di ragazzini di 10 anni eravamo lì.
Ognuno con il pallone personale, mascherina di ordinanza, infagottati di vestiti per resistere al freddo dell’autunno; vietati i contatti, vietato passarsi la palla, vietato fare tante cose. Ma pur di giocare a basket andava bene tutto.
Occhi a bordo campo
Iniziai con i primi esercizi di riscaldamento e la vidi a bordo campo: piccola, bionda con le treccine, mascherina sul viso, seduta su un pallone, occhi che guardavano con invidia i ragazzi che si muovevano sotto la mia direzione.
Il tempo passava, i ragazzi facevano confusione ma si divertivano, diligenti comunque; seppur solo per 60 minuti dimenticavamo il virus, i ricoveri, i tamponi, le quarantene.
Giocavano. Giocavamo a basket. Eravamo vivi.
Finisce l’allenamento e lei era sempre lì, seduta che guardava.
Da dove era venuta fuori? Chi era?
“È mia sorella!”. Uno dei ragazzi sentì la mia domanda alla bimba e rispose al posto suo.
Sette anni. Pochi. Tanti.
Guardai lui, guardai lei. In effetti si assomigliavano seppur con la mascherina che copriva il viso di entrambi.
“Di che anno sei?” tornai a chiedere alla piccola.
Noi allenatori ragioniamo così: non chiediamo l’età ma l’anno di nascita, perché automaticamente li assegniamo a una precisa categoria giovanile…Siamo delle persone complicate, lo ammetto.
“Duemilatredici” e per la prima volta la sentii parlare, ma era quasi un sussurro.
Sette anni ed era lì che attendeva solo che una cosa da me.
“Come ti chiami?”
“Valentina”
Lo disse guardandomi con il naso all’insù, verso di me che ero in piedi di fronte a lei.
“È tuo quel pallone dove sei seduta?”
Non rispose ma scosse la testa in senso assertivo. Lo stesso movimento con la testa lo faceva il fratello che assisteva al colloquio.
“Ma sei capace di giocare a basket?” chiesi, sapendo che la risposta poteva essere solo che positiva, al costo di mentire nella maniera più spudorata.
Una buona causa
Non mi sbagliavo. Le teste dei due tornarono a scuotersi per indicare il sì.
“Lei gioca con il gruppo dei piccoli, degli scoiattoli, quelli che non si possono allenare neanche all’aperto!!!”
Era sempre il fratello che parlava e mentre esponeva la causa di Valentina me lo vedevo in vesti di avvocato. O di procuratore.
“Ok! Ok!… Valentina…Prossima volta vieni anche tu ad allenarti con questo gruppo. Non ti lascio a bordo seduta ancora una volta. Almeno giochi”.
Valentina non disse nulla, fece solo un movimento, uno solo, con la testa dal basso in alto.
Stava per un sì. Deciso.
Tremetriezerocinque
Avevo fatto i mei calcoli: non erano permessi contatti fisici, niente esercizi di difesa. Quindi solo palleggio e tiro, cose che lei poteva tranquillamente fare nel suo piccolo.
I canestri del campetto erano ad altezza normale, non abbassata, adatti alle loro categorie. Ma se mentre i ragazzi di 10 anni non avevano particolari problemi ad arrivarci con i loro tentativi di tiro, per lei pensavo fosse un problema, piccola come era.
Sì…piccola…ma tosta.
Infatti per lei non fu mai un problema tirare ed arrivare al canestro alto.
A tremetriezerocinque. E a segnare.
Iniziò così
Al successivo allenamento fu la prima ad arrivare, vestita di tutto punto: scarpe da basket, tuta, mascherina, voglia di fare. Felice.
Sempre attaccata a suo fratello e al suo amico. Anzi…più attaccata all’amico del fratello e spesso dove andava lui c’era anche lei.
Quello che i ragazzi più grandi facevano, lo faceva anche lei; a suo modo, nel suo piccolo. Li seguiva, li copiava, imparava.
Nelle sfide a squadre lei ce la metteva tutta, non voleva sfigurare di fronte a quelli più grandi, tanto che in più di una occasione riusciva a mettere il canestro della vittoria.
Tirava con le sue piccole mani il pallone verso il canestro in maniera ben calibrata ed efficace perché segnava spesso, tanto che quelli più grandi iniziarono a fidarsi di lei.
“Ragazzi! Fate pari e dispari e formate le squadre!”.
E lei era tra i primi ad essere chiamata solo dopo pochi allenamenti.
“Beh…e quella lì chi è?”
Valentina
Non passava inosservata Valentina, piccola tra i grandi, bambina tra i maschi, sempre zitta ma sempre sveglia. La vedevano quelli degli altri gruppi, gli altri allenatori. Tutti si stupivano e poi sorridevano nel vederla.
Si allenarono con la nebbia, con pochi gradi sopra lo zero. Diversi rimasero a casa, troppo freddo.
Lei no.
Berretto, guanti, mascherina, pallone, thermos con il the caldo.
Venne sempre. Ad ogni allenamento. Non ne saltò uno.
Non era più una bambina, una delle tante.
Era Valentina.
Quella che si allenava con i grandi, con merito.
7 vs 13
Famosa poi quella volta che un ragazzo di 13 anni di quasi 1.85m si fermò a giocare con i ragazzi, a fare qualche tiro in più.
Accettò una sfida e in finale arrivarono lui e Valentina: il gigante e la bambina. Vinse la bambina. Con seguito di urla e schiamazzi da parte dei suoi compagni, compreso il fratello.
Lei invece come al solito non disse nulla, ma camminava a tre metri sopra il cemento del campetto.
Regole e non regole
Arrivò febbraio 2021 e il permesso di tornare in palestra.
Per le nuove regole lei non avrebbe potuto entrare, ma una che si era fatta tutti quegli allenamenti fuori al freddo non la potevo lasciare fuori. Non lo trovavo giusto.
Decisi di fare il finto tonto, cioè quello che non capisce le cose: a volte può essere utile.
Tamponi a tutti, compresa lei, ogni quindici giorni. E poi allenamento, con gli stessi compagni.
“Guarda che lei non potrebbe fare allenamento” mi veniva detto.
“Scusa… non avevo capito” rispondevo.
Poi quelli che mi riprendevano si fermavano a guardare Valentina: vedevano la sua voglia, la sua gioia, il suo impegno. E rimanevano ammirati. Tutti.
Nessuno mi contestò più nulla.
Una stagione che si chiama vita
A maggio, quando la stagione stava per finire, senza aver fatto una partita che fosse una, decisi che comunque la foto ricordo era obbligatoria.
Ognuno con la sua divisa, ben pettinati e in ordine.
E volli anche Valentina, perché per la stagione 2020/2021 lei fece parte a tutti gli effetti della squadra dei ragazzi di dieci anni che si allenarono all’aperto e al freddo in quell’inverno.
Ed è stata l’unica volta che in quella stagione videro il mio viso non coperto da una mascherina.
La foto adesso è appesa nel corridoio degli spogliatoi e già più di qualcuno, nel vedere una piccola bimba con le treccine, con la divisa uguale agli altri, proprio in mezzo a tutti quei ragazzi, la indicano e chiedono:
“E questa qui chi è!?”
Valentina. Lei è Valentina.