C’è stato un tempo oggi quasi dimenticato, ma che vale la pena ricordare: il tempo del cortile.
Fredda e impersonale, la burocrazia chiamava nucleo abitativo quello che noi tutti chiamavamo palazzine, anche quando queste erano palazzi alti 10 metri e con così tante scale che per numerarle si consumava quasi tutto l’alfabeto.
Ebbene, in questo micromondo urbano delle palazzine piani c’era un posto franco dove il tempo rimaneva sospeso e le regole erano quasi tutte altre rispetto al mondo dei grandi.
Il cortile, appunto, dove gioco, sport e vita prendevano forma e si annunciavano.
Il luogo sospeso
Ogni palazzina, specialmente quelle dove al singolo numero civico ne corrispondevano quattro o cinque o anche di più, aveva un suo spazio giochi che ne diventava cuore pulsante. Un luogo misterioso dove tutto poteva accadere e dove, almeno fino ad una certa età, il gioco di genere era rigidamente osservato. Maschietti con i maschietti e femminucce con le femminucce, tutti indaffarati in giochi che raramente si mischiavano tra loro e che spesso in un improvvisato maschi contro femmine si sfidavano alla qualsivoglia.
Il cortile oggi è praticamente scomparso o destinato ad altri usi, ovvero parcheggi…o parcheggi. Non c’è da stupirsene. Macchine e motorini abbondano, bambini decisamente no e sembra che ce ne saranno sempre meno.
La prima arena
Ebbene c’è stato un tempo – a Roma, ma immagino ovunque – in cui il cortile era la prima arena dove, tra giochi di abilità fisica e d’ingegno, si allenavano corpo e mente. Di fatto, ci allenava per la vita.
E di storie da raccontare, il cortile ne ha infinite.
Giochi da cortile
Nella parte sterrata, ancora presente in alcuni Condomini davanti le scale, i giochi oggi spariti dei maschietti erano palline, bomba-barattolo, nizza (detto anche Tripoli). Ovviamente si giocava anche a pallone, dando vita a interminabili sfide di quattro o cinque ore per tempo. Altro che le partite da 90 minuti dei grandi.
Anche per noi, come in Brasile, il ruolo del portiere era, per così dire, riservato ai ragazzini meno bravi o con qualche problema motorio derivato da troppa pastasciutta. Spesso però, per non far torto a nessuno, ci si inventava il ruolo del portiere-giocatore.
Il portiere giocatore
Questo ruolo un po’ anomalo merita un piccolo approfondimento.
Il portiere-giocatore era l’unico a poter prendere il pallone, anche con le mani, in prossimità delle porte di gioco. Si badi che le porte, di altezza aleatoria che coincideva fin dove si arrivava con il braccio teso, erano segnate in larghezza con quello che si aveva a portata di mano: giacchetti, poveri libri trascurati, terra ammonticchiata dello sterrato o anche cumuli di sassi riportati dai pratoni che spesso segnavano il mondo misterioso che circondava le palazzine del boom economico. Pratoni o che erano solo in attesa di ruspe e gru che li avrebbero fatti presto scomparire.
Ovvio che un ruolo del genere spesso generava discussioni e liti che si concludevano con l’espulsione dal gioco dell’inghignatore, slang romanesco in disuso che strapperà un sorriso a chi se ne ricorda. Agli altri faccio presente che per inghignatore si intende colui che bara, che non sta al gioco…inghigna, insomma.
Privilegi da bambine
Alle bambine era riservato lo spazio cementato del cortile.
Loro disegnavano con i gessetti a terra lo schema e poi giocavano a campana oppure davano di corda e, con nostra somma invidia, erano bravissime, roba quasi da pugili.
Il generale inverno
Anche nel cortile se la comandava l’inverno.
Quando faceva freddo o pioveva ci si rifugiava nei portoni per giocare. Noi maschietti con le figurine o a battimuro con le poche monetine-paghetta, le femminucce a vestire, pettinare e a far parlare le bambole.
Piaccia o non piaccia oggi, ma al tempo il mondo funzionava così. O quantomeno così funzionava il cortile.
Le prime lattine
A fine anni cinquanta comparvero le prime lattine, inizialmente soprattutto di birra. Fu così che quando nessuno aveva la minima idea di cosa fosse riciclo dei materiali o raccolta differenziata, con le lattine vuote che si trovavano in casa l’ingegno (o genio) italico dava il meglio di sé. Nel cortile, ovviamente.
Armati noi maschietti di gessetti presi in prestito con destrezza (in romanesco sgraffignati) dalle femminucce, ne invadevamo la zona cementata e disegnavamo piste che sarebbero diventate veri e propri circuiti per le lattine.
Ovviamente, così come in circuito vanno macchine preparate, anche noi ci davamo da fare con le lattine. In particolare le riempivamo con diversi materiali, compreso la buccia dell’arancio, un classico delle merende invernali. A quel punto le lattine dovevano camminare, anzi correre. E qui viene il bello.
Elogio della schicchera
Per far correre le lattine bisognava colpirle, quasi sempre inginocchiati o sdraiati a terra.
Con studiata precisione si prendeva la mira e poi via, partiva la schicchera!
La schicchera era una mossa universale, risolutiva, a volte persino arma letale. Si univa il dito pollice con il medio lasciando andare quest’ultimo velocemente verso la lattina: ‘na schicchera insomma, buona per le lattine, per i tappi e, in classe, anche per le orecchie del malcapitato compagno del banco davanti.
Nella liturgia dei gesti di strada, la schicchera si contende il primo posto con la mossa del cicalone resa famosa dall’Alberto nazionale.
Sua maestà la bergia
Protagoniste indiscusse del cortile, ma con propaggini estive anche in spiaggia, erano anche le coloratissime e prismatiche palline di vetro, dette chissà perché berge e che mai, almeno noi, chiamavamo con il nome comune di biglie.
Per giocare si doveva unire sempre il pollice, ma con la base del dito anulare mettendo nell’incavo che si creava la bergia da lanciare verso una pallina avversaria avendo cura di non fare manghena. E qui siamo ancora una volta nel territorio infinito dello slang romanesco dimenticato. Quando la mano che teneva la pallina non era unita all’altra mano che doveva stare ferma nel punto indicato si faceva manghena, vietatissima al punto che comportava la perdita della pallina stessa.
Oggi, artrosi permettendo, se doveste far vedere ai vostri nipoti questi gesti per noi una volta semplici sono sicuriìo che trovereste sguardi meravigliati.
E poi arriva er picchio
Tra i giochi del cortile come non ricordare er picchio…‘na mezza specie de piccola trottola de legno, armata di punta di ferro e scanalata in modo da poterci avvolgere uno spago lungo che, lasciandolo andare, lo faceva girare.
Se il tiro riusciva, la punta in ferro colpiva un altro picchio, da cui il nome del gioco che si chiamava spacca-picchio.
Un po’ crudele se vogliamo, ma quello era!
Uno monta ‘a luna
Che dire? Agilità, resistenza, forza.
Uno monta ‘a luna era un allenamento completo e, nel cortile, definiva gerarchie ben precise che sarebbero rimaste per tutta una vita. Chi era forte a uno monta ‘a luna sarebbe rimasto forte per sempre.
Semplice, essenziale, uno monta ‘a luna aveva l’unica regola di saltare a mo’ di cavallina sulla schiena di colui a cui per sorte di conta toccava stare piegato. Palmi aperti, spinta sulla schiena altrui e via. Solo che man mano che si andava avanti con la numerazione…uno ‘a luna…due ‘a fija del re… i palmi si chiudevano e diventavano pugni chiusi. E allora erano dolori…
Tre tre giù giù
Qui siamo nel regno dei giochi barbarici.
Due squadre. Una sfortunata, quella che stava sotto, e una fortunata, quella che saltava. Strumento necessario una ringhiera o un muretto dove appoggiarsi saldamente, ma nel cortile qualcosa se ne trovava sempre.
Il primo della squadra sfortunata si chinava e si aggrappava forte alla ringhiera, gli altri suoi si piegavano e si abbracciavano proni uno dietro l’altro. In pratica una sorta di trenino immobile in attesa dei passeggeri.
I passeggeri in questo caso erano quelli dell’altra squadra. Passeggeri che non salivano, ma saltavano. Rincorsa di rito, mani piantate sulla schiena del primo della fila prona (in romanesco a pecoroni), slancio in avanti per arrivare sulla schiena del primo della fila. E così a seguire tutti gli altri. Una volta che tutti erano montati partiva il grido di guerra. Ripetuto tre volte, il tre tre giù giù risuonava nell’aria mentre chi stava sopra si muoveva spingendo e scalciando per far crollare la resistenza di quelli di sotto. Vinceva chi resisteva o chi spaccava la fila.
Epica pura
Giochi pericolosi
Scampato il rischio della schiena rotta, c’era altro che forse era anche peggio. Parlo del gioco cor carburo.
Mica cosa da nulla. Il carburo è un reagente chimico che a contatto con l’acqua sviluppa un gas esplosivo. Ebbene noi mettevamo il carburo in una buca che facevamo sullo sterrato del cortile, sopra ci si metteva un barattolo capovolto che per reazione partiva a razzo e volava altissimo.
Un certo pomeriggio che ricordo come fosse ieri, il carburo aveva fatto cilecca e il barattolo era fermo lì. Che fai e che non fai, Filippo R. prende l’iniziativa e seppur con cautela si avvicina per cercare di capire meglio. Si avvicina fino a metterci il viso sopra e accade di tutto. Per un qualche inspiegabile motivo il carburo carbura, il barattolo parte e si stampa sul viso di Filippo. Tragedia per fortuna non letale, ma che Filippo R. ancora oggi ricorda accarezzando la cicatrice circolare che gli rende particolare il viso.
Metafora di vita
Campo, arena, palestra. Il cortile ha allenato tutti noi, ci ha fatto muovere, ci ha fatto capire le regole e spesso ce le ha fatte anche inventare. Luogo misterioso con i suoi riti d’iniziazione, luogo delle scoperte e delle prime conoscenze del mondo e degli altri, palcoscenico di primi amori mai sopravvissuti, ma anche mai dimenticati, il cortile ci ha insegnato rudimenti di vita in una metafora che avremmo capito solo anni dopo.
Chi non l’ha vissuto non può sapere, ma qualcuno forse può immaginare.
Io credo che oggi il cortile manchi soprattutto a chi non l’ha avuto e a chi non lo avrà mai.