All’inizio degli anni ’80 Lino Banfi, indiscussa icona di un certo modo di intendere il cinema in Italia, e la commedia in particolare, incontrò il famoso allenatore Nils Liedholm su un aereo che li avrebbe portati da Roma a Milano.
“Banfi, hai mai conosciuto Oronzo Pugliese?”, chiese il barone con la sua caratteristica flemma svedese. “Ne ho sentito parlare, in passato ha allenato il Bari”, rispose l’attore. “Non solo Bari, tante altre. Un tipo tosto, ma strano. Dovresti interpretarlo”, suggerì Niels.
Poco dopo, Banfi propose l’idea al regista Sergio Martino. Nacquero così il film cult L’allenatore nel pallone e l’immortale personaggio di Oronzo Canà.
Ma chi era Oronzo Pugliese?
Personaggio pittoresco, impulsivo e focoso, capace con pochi gesti di infiammare il pubblico allo stadio, scaramantico fino all’assurdo ma sempre vestito in maniera elegante, Pugliese è stato forse il più pittoresco degli allenatori italiani.
Ultimo di sette figli di una famiglia contadina, Oronzo nacque nel 1910 a Turi, un presepe di case bianche, di vigne e di uliveti nel cuore della Murgia barese.
Da calciatore
A sedici anni lasciò la casa paterna per firmare il suo primo contratto da calciatore con il Gioia del Colle. Da lì partì la sua modesta carriera, prima da centravanti e poi da roccioso terzino, con tappe a Frosinone, Montevarchi, Potenza e Siracusa in serie C, dal ’38 al ’45. Accantonato il sogno di giocare nelle serie maggiori, accettò a Messina il doppio ruolo di giocatore e allenatore, portando la compagine peloritana in serie B dopo lo spareggio con il Cosenza.
Da allenatore
Cominciò così la sua pirotecnica carriera da allenatore. Dopo l’esperienza positiva a Messina, venne ingaggiato prima dal Benevento, poi dalla Nissena e dalla Reggina, che portò dalla serie D alla C, per giungere al Siena del presidente Danilo Giannini, padre della rocker Gianna, sfiorando la promozione in B. Nell’estate del 1961 ci fu l’approdo al Foggia del patron Domenico Rosa Rosa, industriale del legno, stabiese di nascita, che apportò stabilità alle casse societarie. E qui si consumò il primo capolavoro di don Oronzo: in quattro anni di trionfi raggiunse la massima serie con i satanelli. Per questa impresa, nel giugno del 1964 Pugliese venne insignito del “Seminatore d’oro”, premio attribuito dalla Figc all’allenatore emergente della stagione appena trascorsa.
Foggia-Inter 3-2
Il secondo capolavoro di mister Pugliese si consumò proprio in serie A con il Foggia. Domenica 31 gennaio1965 allo Zaccheria si presentò l’Inter del mago Herrera. I campioni d’Italia, d’Europa e del Mondo di don Helenio erano indietro di cinque punti in campionato rispetto al Milan capolista; i satanelli galleggiavano onorevolmente a metà classifica. Si narra che il giorno prima la squadra nerazzurra fosse andata a San Giovanni Rotondo, ospite di padre Pio, che gli avrebbe predetto la sconfitta contro il Foggia, ma la conquista dello scudetto. Profezia che poi si realizzerà in toto. La partita si disputò in uno stadio pieno come un uovo, con tanto di record d’incasso (circa trentadue milioni di lire), su un campo in terra battuta, senza un filo d’erba. Tutto accadde nel secondo tempo. Il Foggia segnò ben due reti nei primi nove minuti con Lazzotti e Nocera. L’Inter, scossa, accorciò con Peirò e poi pareggiò con il fuoriclasse spagnolo Luisito Suarez. Ma al 77’ ancora Nocera segnò il gol del definitivo 3-2. Fu un tripudio. Tuttosport titolò: “Che partitone il Foggia! Suarez non basta più”. Il Corriere dello Sport, invece, uscì con un definitivo: “W la provincia!”
Quando i giornalisti nel dopopartita gli chiesero se credeva di aver fatto una magia battendo i campioni dell’Inter, mister Oronzo sorrise, si frugò nelle tasche della giacca, in quelle dei calzoni, poi si osservò le mani e rispose: “La bacchetta magica l’ho dimenticata a casa”.
Era nato il mito del mago di Turi.
Il mago di Turi
Nell’Italia dei campanili, delle dicotomie e delle rivalità (per esempio quelle Coppi-Bartali e Rivera-Mazzola) Oronzo Pugliese diventò la risposta italiana al mago Herrera. Da una parte l’allenatore divo, superpagato e straniero; dall’altra, l’allenatore antidivo, che a Siracusa si era accontentato di alcune cassette di arance come paga, e spesso incline a usare il dialetto per le sue frasi dallo straordinario sapore popolare.
In effetti, la rivalità tra i due mister, che non era una semplice nota di colore, ma piuttosto una contrapposizione tra contrari così simili da attirarsi fatalmente, si rinnovò spesso.
“Non sono io l’Herrera del sud, è lui il Pugliese del nord”, ebbe a dire un orgoglioso Oronzo ai cronisti. E poi: “Il vero mago sono io, quello è solo uno stregone.” Nel frattempo era diventato allenatore della Roma, nonché Commendatore per meriti sportivi, riconoscimento ricevuto nel 1966 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Le stravaganze del mister…
Di Oronzo Pugliese, Gianni Brera scrisse: “Un mimo furente di certe grottesche rappresentazioni di provincia”. E proprio come un personaggio che ogni volta è costretto compulsivamente a inventare sé stesso, durante i novanta minuti della partita il mago di Turi dava il meglio di sé. In panchina si accomodava talvolta con la compagnia di una gallina, non prima di aver sparso per tutto il campo il sale e la sansa di olive, per stordire gli avversari con la puzza. Poi, però, non riusciva a starsene tranquillo seduto. Tarantolato e istrionico, correva per tutto il bordo del campo, urlava e gesticolava, con la faccia rubizza, la calvizie precoce e sempre con il completo di lino, anche d’inverno. Una volta, durante un Roma-Cagliari, inseguì sulla fascia il brasiliano Nenè urlandogli, tra le risate di tutto l’Olimpico: “A me, passala a me!” Peccato che l’ala del Cagliari crossò invece per Riva, che fece gol.
…e le sue frasi famose
Non erano meno spettacolari le sue frasi, spesso risposte vivaci alle domande dei giornalisti, con qualche deroga alla grammatica dell’italiano.
Per esempio, a chi gli chiedeva se volesse andare all’Inter del suo rivale, rispose: “A Milano non ci andrei perché la nebbia mi mangerebbe le orecchie.”
Sul suo modo di intendere il gioco, chiosava: “Ho sempre preferito il gioco scarno, io ai passaggetti, alle triangolazioni, ai ghibilori non ci ho mai creduto. È un gioco rachitico. Le mie squadre devono assimilare il mio carattere di battagliamento”.
Oppure: “Io resto alla finestra, oggi tutti vogliono gli allenatori che fiorettano, questi vogliono, perché ora per il calcio bisogna andare all’università col volume enciclopedico, ahooo quando si prendono cinque o sei lezioni teoletiche il calcio è finito”.
Cos’era il pallone per lui? “Il calcio è vita, è vitalità, è vitalizio”.
Sui giocatori stranieri aveva le idee chiare: “Non ci comprendiamo tra noi italiani, figuriamoci con gli stranieri. Perché lo straniero sai cosa fa? Quando una cosa gli garba io avere capito, quando non gli garba ma sa, io non avere capito… pregare, spiegare e poi non capisce mai perché non gli suona…”
Anche ai suoi giocatori lasciava insegnamenti memorabili. Per esempio, fu lui l’inventore del famoso: “Undici siamo noi e undici sono loro”. Quando spiegava la tattica, talvolta usava bicchieri pieni di vino: “Il tuo avversario te lo devi bere!”, e giù tutto in un sorso. Perché, alla fine, si sa che: “La psicologia è roba da ricchi, la grinta è roba da poveri”.
Una volta portò i suoi giocatori al cinema, seguendoli con lo sguardo da lontano. Vide che uno di loro si accendeva una sigaretta, e allora strisciò quatto quatto e da dietro gli rifilò due schiaffoni. Peccato che si trattava solo di un semplice spettatore!
Il vero allenatore nel pallone
Dopo aver allenato anche Bologna, Bari, Fiorentina e Avellino, Oronzo Pugliese chiuse la carriera nel 1978 a Crotone. Se ne tornò a Turi, dopo una vita vagabonda. Ormai non correva più lungo la fascia dietro ai giocatori. Se ne stava su una sedia, colpito da un maledetto ictus. Oronzo Pugliese morì l’undici marzo del 1990. Nell’ottobre del 1984 uscì al cinema il film cult L’allenatore nel pallone, con Lino Banfi che vestiva i panni di Oronzo Canà, un pittoresco allenatore pugliese conosciuto come “il vate della Daunia”, amato da almeno due generazioni di spettatori. In realtà, adesso sappiamo che grazie a quel film abbiamo sempre, inconsapevolmente, amato Oronzo Pugliese, il vero allenatore nel pallone.