1940. Simo Häyhä e il fronte finlandese
Invisibile nel suo parka immacolato Simo Häyhä, il tiratore scelto più letale del fronte finlandese,, osserva da un punto sopraelevato il portaordini russo mentre, lottando con la pesante motocicletta PMZ-A 750, cerca di risalire una mulattiera resa impraticabile dai crateri lasciati dai proiettili di mortaio. Spiccando sulla neve candida, grossi fori nel terreno scuro segnano i ripetuti spostamenti del fronte della Guerra d’ Inverno.
Nella primavera del 1940, il piccolo ma determinato esercito finlandese resiste per il secondo anno consecutivo all’attacco del colosso sovietico. Sotto il cappuccio, a causa del lato sinistro anormalmente incavato, il volto impassibile di Simo Häyhä ricorda le vecchie radici di quercia contorte e lavorate dagli elementi.
L’espressione attonita di chi lo vede per la prima volta, ormai lo lascia del tutto indifferente. Anche i suoi commilitoni, del resto, non fanno più caso al viso orribilmente deturpato dall’esplosione di una granata. I finlandesi in genere sono alti, mentre Simo arriva a malapena al metro e sessanta. Eppure è circondato da un timore reverenziale: la creatura più letale che abbia mai frequentato quei luoghi meravigliosi quanto duri e inospitali per via del clima, il primo e non di rado il più mortale dei nemici da affrontare. Al micidiale tiratore, dopo quattordici mesi di appostamenti solitari con temperature di venti o trenta gradi sotto zero, sono già accreditate più di cinquecento uccisioni di soldati dell’Armata Rossa, inclusi numerosi ufficiali di alto grado. Solo durante la battaglia di Kollaa, il numero obiettivi neutralizzati sarebbe cresciuto di altre quarantadue unità. Il conteggio giornaliero dei morti, è diventato un rito tra i cecchini di entrambe le parti.
Il taciturno tiratore scelto però si sottrae ai rumorosi commenti dei colleghi ribadendo che, in ogni caso, non si è mai trattato di una questione personale e tantomeno piacevole “Ho fatto solo quello che mi hanno chiesto, al meglio che ho potuto” era il suo laconico commento mentre accarezzava il suo fido Moisin-Nagant Mod. 28, quasi fosse un prolungamento del proprio corpo. Per un curioso paradosso, ha quasi sempre impiegato un fucile russo modificato in Finlandia, da lui affettuosamente soprannominato “Pystykorva”, che significa “bassotto”. Dopo ore di assoluta immobilità sdraiato nella neve, riesce a cogliere un bersaglio a quattrocento metri di distanza solo con la diottra e senza usare un mirino telescopico, il cui riflesso potrebbe svelare la sua posizione. Per poi eclissarsi ogni volta come un fantasma. Da entrambi i lati del fronte, questa singolare attitudine affinata da anni di caccia in condizioni estreme, gli ha guadagnato il soprannome di “Morte bianca”.
Cercando di interrompere quello che sta dimostrandosi un autentico flagello, l’Armata Rossa prima mette in campo i migliori cecchini per eliminarlo, poi addirittura un martellante fuoco di artiglieria, e tutto nel tentativo di stanare un unico tiratore scelto. E fu così che, il 6 marzo del ’40, Simo Häyhä viene colpito alla mandibola da una scheggia di granata. L’esplosione gli massacra la parte sinistra del viso e la mandibola. Rimasto privo di conoscenza per una settimana, torna a combattere dopo una lunga e dolorosa convalescenza, che però non ha minimamente intaccato la fibra del tenace cacciatore d’alci.
La morte bianca
Ignaro della minaccia che incombe sulla propria vita, il soldato scelto Iwan Suchow, in quel momento sta imprecando contro il mondo intero. Sulla guerra, sul diploma conseguito all’accademia militare meccanica di Mosca. E soprattutto sulla baldanzosa decisione di proporsi come portaordini in motocicletta, forte di alcune gare disputate prima di arruolarsi. In particolare, però, la sua rabbia si accanisce sui due quintali e mezzo abbondanti di “indistruttibile acciaio sovietico” della gigantesca bicilindrica PMZ-A 750, concepita soprattutto per lavorare accoppiata al sidecar. La trasmissione cardanica, la forcella primitiva e il monumentale telaio rigido in lamiera scatolata, rendono un calvario buche e dossi, sui quali invece, con la sua piccola Izh-7 300 avrebbe volato come nel 1928, alle Spartakiadi.
Dove la leggera e agile due tempi sarebbe risultata perfetta, in sella a quel goffo pachiderma, deve vedersela con gli improvvisi scarti della ruota posteriore causati dall’infida aderenza degli pneumatici, che il freddo indurisce come marmo. Ha perso il conto delle volte in cui ha dovuto ricorrere a tutte le forze rimaste, per strappare la moto alla tenace morsa del fango.
L’arte del tiro
Dal proprio punto di osservazione, il cecchino segue con apparente distacco il motociclista che, metro dopo metro, avanza verso il punto ottimale scelto per sparare e poi ripiegare indisturbato dietro le proprie linee. La pendenza non è eccessiva, ma le condizioni del fondo e l’evidente inadeguatezza del mezzo, rendono un’impresa epica anche solo superare una lieve asperità. Per non parlare dei crateri delle esplosioni e dell’intreccio di profondi solchi lasciati sul terreno dal passaggio di altri veicoli, resi ancora più insidiosi dalla bassa temperatura. Seguendo quella caparbia sfida contro gli elementi, il tiratore non può evitare di provare una certa ammirazione per l’abilità e la determinazione con la quale il sovietico si avvicina senza saperlo al momento che, almeno per lui, segnerà la fine della guerra e di ogni sofferenza terrena.
Uccidendo fin da ragazzo degli animali per vivere, Simo aveva provato un’ammirazione simile per la placida forza con cui l’alce riesce a fendere la neve più alta, o per la rapidità della lepre nel dileguarsi al minimo accenno di pericolo. Ancora maggiore, poi, è il rispetto per la capacità del lupo di eludere l’unico nemico del quale riconosce la superiorità. Da esperto cacciatore, infatti l’animale è perfettamente conscio dell’immeritata supremazia che può darti possedere un’arma. Un artificio meccanico in grado di rendere micidiale anche quella che in un simile ambiente, se dovesse contare solo sui propri mezzi fisici, sarebbe la più inetta delle creature. Privo di armi o di indumenti adatti- riflette il tiratore- l’uomo risulterebbe pateticamente inerme di fronte ad animali capaci di sopravvivere in condizioni tanto estreme.
Il soldato in motocicletta, difatti ora appare fuori posto e altrettanto male equipaggiato. Anche in quel caso, tuttavia, l’uccisione va portata a compimento, si dice il cacciatore.
Dopo aver verificato la velocità del vento, Simo regola per seconda volta la diottra, compensando lo spostamento del bersaglio prima di accarezzare il grilletto, preludio ad un singolo sparo che determinerà l’abbattimento dell’ennesimo obiettivo.
Solamente un obiettivo e un’unica, precisa missione: eliminarlo.
Nulla di personale.
Iwan Suchow e il sorriso del destino
Proprio in quel momento, spossato da una lotta ìmpari, il russo perde il controllo della moto e cade, sdraiandosi scompostamente a faccia in avanti nel miscuglio di terriccio e neve sporca.
Vedendolo immobile, il cecchino pensa che abbia perso i sensi o sia addirittura morto. Stroncato dalla fatica, dal freddo, dall’ impatto col terreno o da tutte queste cose insieme. Accarezza brevemente l’idea di sfiorarlo con un proiettile, per indurlo a muoversi nel caso fosse ancora vivo.
Il pensiero però gli appare riprovevole.
Così attende, fino a quando il motociclista non rialza il viso striato di fango e sudore, per poi vederlo girarsi a fatica e restare lì, ansimante come un animale ferito, lo sguardo rivolto verso l’alto.
Iwan ha fitte di dolore in tutto il corpo, il colpo ricevuto al torace rende il respiro corto e faticoso. Neppure nel durissimo finale di gara disputato sotto lo sguardo severo delle massime autorità sportive, si era sentito così male.
Questa volta, però, arrivare alla fine, quale che essa sia, è per lui un imperativo categorico. Ancora prima che per il partito, la patria e l’esercito, sente di doverlo al proprio orgoglio. Poi alla donna che, forse, lo aspetta ancora a casa.
Si mette carponi e arranca lentamente fino alla moto. La rialza con uno sforzo sovrumano, provando ad accenderla. Ogni calcio impresso alla pedivella gli strappa un gemito ma non desiste. Per due volte, il rinculo della compressione lo fa finire a terra dolorante, ancora più stremato.
“Il motore è ingolfato – borbotta d’istinto il finlandese osservando la scena dall’alto – devi prima chiudere il rubinetto della benzina, poi pedalare ancora. Ecco, così , bravo!” – si accorge di aver esclamato quasi ad alta voce. In quel deserto bianco sferzato dal vento, il russo non è sicuro di aver davvero sentito un bisbiglio e prosegue nell’ostinato tentativo di riavviare la moto. Dopo un paio di starnuti, il motore emette un paio di colpi, infine miracolosamente si riaccende.
Suchow alza lo sguardo fissando l’ultimo tratto di salita da affrontare.
Con un profondo sospiro, innesta la marcia e riparte di slancio.
Una smorfia che potrebbe essere di compiacimento solca il volto devastato del cecchino. Per un lungo istante il dito indugia sul grilletto, infine si posa sul lato della calciatura. Accarezza il legno del fucile, quasi a consolarlo della mancata preda. Si alza scrollandosi la neve di dosso, mentre con lo sguardo insegue la grossa moto, che con un ultimo sobbalzo supera il crinale prima di sparire alla vista. Dietro il colle, la strada probabilmente migliora- pensa-perché il rumore da quel punto si allontana più rapidamente.
Da quel giorno del 1940 sulle dolci ma gelide colline della Carelia, Iwan e Simo non si sarebbero mai più incontrati.
L’ infallibile tiratore, a chi un po’ morbosamente domandava se non fosse pentito di aver ucciso un numero tanto elevato di uomini, rispondeva sempre…ho fatto quello che mi hanno chiesto al meglio che ho potuto.
Ma tra sé, aggiungeva…Il colpo migliore, però, è l’unico che ho mancato di proposito.
I protagonisti
Congedatosi col grado di generale delle truppe corazzate e numerose decorazioni al valor militare più una medaglia conseguita in gioventù per meriti sportivi, il compagno Iwan Suchow, nato nel modesto villaggio Podjom Michailovka, nella provincia di Samara, non morirà per mano del più letale tiratore scelto della storia.
Lascerà un mondo che ormai fatica a riconoscere nel 1962, a sessantasette anni, nella sua bella residenza di Mosca e senza mai più guidare una motocicletta per motivi di servizio, come si addice al suo rango.
Attorno a lui i figli, uno dei quali diventerà a sua volta un discreto pilota di motocross, mentre l’altro seguirà la carriera militare.
Ugualmente acclamato come un eroe nazionale, dopo essere tornato alla sua professione di cacciatore di alci, molto più tardi, nel 2002, se ne andrà anche Simo Häyhä. Si spegnerà con l’abituale discrezione ad Hamina, a pochi chilometri da Rautjärvi, il paesino di circa tremila abitanti dove l’uomo noto come la morte bianca era nato il 17 dicembre del 1905 ed aveva trascorso pacificamente gran parte dei suoi novantotto silenziosi anni.