La strada ha sempre avuto altre regole, la strada è sempre stata testa, pancia e cuore.
E tuffi. Tuffi di strada, belli come solo come tu e Dio sapete, belli anche se davanti a te avevi il mare che figurati quanti tuffi ci potevi fare.
Ma i tuffi di strada no, erano altra cosa, altro sapore, altra libertà.
Anni ’60, ma anche prima e anche dopo.
Con la scuola chiusa, ma anche quando era aperta, con il sole, ma anche quando ce n’era poco.
Con gli amici, ma anche con chi non avevi mai visto prima, con chi incontravi per caso, pronto a dividere avventure irripetibili, quelle che ancora ricordi, quelle che hai raccontato ai tuoi figli e che magari stai raccontando adesso ai tuoi nipoti.
Loro non lo possono sapere quanto ti sembrava di avere il mondo in tasca quando davanti a una fontana ti spogliavi veloce e poi ancora più veloce ti tuffavi di testa, di pancia e di cuore.
Di cuore, sì, perché quando ti tuffavi mica pensavi che ti potevi rompere l’osso del collo, perché quei tuffi erano tutta una gioia, una felicità allo stato puro, tanto che quando ci ripensi senti ancora l’acqua scivolarti addosso e rivedi a memoria la scena.
L’unica indecisione era da quale fontana iniziare
Attenzione, non ho detto quale fontana scegliere, ma da quale iniziare perché una mica bastava. Certo, non erano vicine le fontane, ma chi ti correva dietro, la giornata era lunga e persino la vita ti sembrava infinita quando sei ragazzino.
Comunque, per te che abitavi alla Stella o alla Sanità era difficile resistere alla tentazione della fontana di piazza Cavour, la più vicina.
E allora via, via maglietta, via calzoni corti, via le scarpe che guai a rovinarle perché quello sì che sarebbe stato un guaio.
E allora via, con quelle mutande di cotone grosso, con le coste e il pattone davanti che ancora trovavi inutile, mutande che bagnate diventavano pesanti e non si asciugavano mai, ma a te che t’importa, forse che non si può correre anche in mutande per strada.
È così che il tuffo diventa liberazione pura, sfida assoluta, trasgressione pura anche se, in fondo, cosa ti volevi trasgredire.
Un tuffo, due tuffi, tre tuffi, infiniti tuffi
Dice che fosse vietato fare il bagno nelle fontane, ma quando ti tuffavi tutti quelli che guardavano sembravano divertiti, non solo, ma se capitava qualche turista si fermava e ti fotografava.
Quel giorno, uno dei tanti, mentre entravi e uscivi dalla fontana, mentre dal bordo ti lanciavi cercando di disegnare forme nell’aria prima di piombare in acqua, ti sei accorto che c’era un signore che ti fotografava, ma non ci hai fatto quasi caso. Pensavi che anche quel signore fosse un turista dei tanti, uno di quelli che tra le sorprese di una Napoli sconosciuta trovavano anche ragazzini che facevano tuffi nelle fontane.
Solo tornando a casa, la sera, ti è venuto in mente che quel signore non sembrava poi così tanto un turista. Quel signore era vestito come uno di casa, aveva la faccia di uno di casa e l’aria di uno che ti viene a trovare la domenica e ti porta le sfogliatelle. Ma è stato solo il pensiero di un attimo, archiviato, nascosto nella memoria, annegato nel tempo.
Ma il tempo prende e a volte restituisce anche, questo l’hai capito solo dopo
Avevi avuto buon occhio, comunque.
Quel signore che poteva essere tuo padre o tuo zio, era Riccardo Carbone, il fotografo di Napoli, e noi oggi siamo qui a parlare di te grazie a lui che ha fermato un momento della tua vita e ce l’ha consegnato.
Oggi ti guardiamo nelle sue foto e anche noi sentiamo scivolarci l’acqua addosso e non solo, anche noi ci stiamo tuffando con te, ancora una volta, perché è vero che non ci siamo conosciuti, ma cosa importa.
Chi ha giocato per strada lo sa
Di testa, di pancia e di cuore.
Proprio come i tuo tuffi.